Quel numero indelebile

Il racconto vivo e vero di quanto accaduto tra il 1944 e il 1945 alla mia mamma, la sua esperienza della deportazione e di come, sopravvissuta, ha testimoniato fino alla fine la forza della fede e del perdono

25-7-1944

Caro Pepi,
in questi giorni sono pervenute due tue lettere e una cartolina indirizzate a Emilia, però devo risponderti io, perché purtroppo l’hanno presa i fascisti per sospetto politico. Questo è stato il 28 maggio, mentre era alla Messa, poi l’hanno portata a Lupogliano dove è rimasta solo un giorno, quindi a Pisino e infine al Coroneo a Trieste dove rimase per circa 15, 20 giorni. In tutto questo tempo non ho potuto vederla nemmeno una volta né scriverle. Il 28 giugno ho ricevuto un biglietto scritto da lei che mi diceva che parte per la Germania col pensiero sempre rivolto a te e a noi. Da allora aspetto sempre sue notizie… Ma cosa vuoi, ci vuol coraggio, i tempi sono difficili, ma speriamo che tutto passerà e di ritrovarci tutti insieme, felici. … Cari saluti Annetta.

Ho copiato queste parole da una lettera consumata, indirizzata al mio papà, già prigioniero di guerra ad Hannover. La nonna, ancora ignara, come tutti, di cosa ciò significasse, così comunicava al fidanzato, che Emilia, a quel tempo una ragazza di 23 anni, era stata deportata ad Auschwitz e successivamente destinata a Mauthausen, dove rimase fino al 5 maggio del 1945.

emilia

Emilia era la mia mamma; portava sul braccio, indelebile, il numero tatuato che le era stato assegnato 82389.

Per questi due ragazzi, nati in un paesino nel cuore dell’Istria, la giornata della memoria e quella del ricordo si fondono in una sola perché, appena sposati, nel gennaio del 1946, per sfuggire alla nuova dittatura e per trovare lavoro, vennero ad abitare a Trieste in una stanza in subaffitto con uso della cucina comune a casa di una lontana parente.

Mia sorella ed io siamo nate e vissute in questa stanza fino al 1953.

Di quel tempo ricordo una frase: noi siamo fortunati perché non siamo dovuti andare al campo profughi. Probabilmente avevano fatto di tutto per trovare una sistemazione diversa, che non evocasse la dolorosa, recente esperienza. Appena possibile ci siamo trasferiti in una casetta delle Ferrovie con un pezzetto di terra dove subito il papà piantò una vigna e la mamma si dedicò all’orto e ad allevare qualche pollo. Le foto e i ricordi parlano di una infanzia serena, con una grande disponibilità a ospitare gli amichetti per i giochi nel giardino di casa. Negli anni seguenti sono nati anche i miei due fratelli.

Mai una parola sulla durissima esperienza. Mi sono accorta del numero sul braccio solo quando qualcuno le chiedeva cos’era e lei rispondeva che era un brutto ricordo della guerra.

Cresciuti abbiamo cominciato a fare domande, ma direi che solo in vecchiaia, con i nipoti lei ha cominciato a raccontare.

… Per fortuna alla Risiera di San Sabba* non c’era posto, così mi hanno lasciata al carcere del Coroneo e poi siamo stati caricati sul carro bestiame senza scendere mai per tutti i giorni del viaggio. Non sapevamo dove ci avrebbero portati e io da una fessura guardavo fuori; se vedevo una chiesa, mi affidavo alla Madonna.

foto-emilia-mamma-di-marina-zornadaÈ stata dura, dovevamo fare i lavori forzati raggiungendo a piedi per chilometri la fabbrica di forbici trasformata in laboratorio di munizioni. Di nascosto, nella fila sorreggevamo i più deboli perché stessero in piedi, se cadevano sarebbero stati uccisi.

Mangiavamo sì e no una volta al giorno una minestra di acqua con le bucce delle patate, ma se qualcuno riusciva ad avere un pezzo di pane, perché qualche persona pietosa per strada glielo allungava di nascosto, lo dividevamo tra tutti e lo davano a me per fare le parti perché dicevano che non imbrogliavo.

A ben pensarci, devo molto a lei se mi ritrovo con un innato senso della giustizia e credo nel grande valore della democrazia. Abbiamo intuito che sapesse chi erano i suoi accusatori, ma non abbiamo mai sentito una parola dura nei loro confronti. La sua fede non ha mai vacillato. Negli ultimi anni, un giovane sacerdote, arrivato da poco nella sua parrocchia, le chiese come mai fosse sempre così serena dopo quella dura esperienza. Lei, quasi candidamente, rispose: «Ma Padre, io ho perdonato! Altrimenti, come avrei fatto a sopravvivere…».

Fu così che, seppure con un po’ di imbarazzo, accettò, poco dopo, di raccontare ai ragazzi che si preparavano al sacramento della cresima e ai loro genitori, non tanto l’esperienza del campo di concentramento quanto quella di perdono.

*La Risiera di San Sabba a Trieste è stato l’unico campo di sterminio in Italia

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