Quel “no” di Marina

La decisione difficile alla vigilia del matrimonio.
matrimonio
«Mamma, devo parlarti… è una cosa seria». Ebbi un tuffo al cuore. Lasciai perdere le faccende e mi sedetti accanto a mia figlia, sulla sponda del divano su cui era distesa. Marina aveva l’aspetto emaciato, sofferente, di una persona malata; ma ormai era chiaro: quella febbre improvvisa, quei crampi tremendi allo stomaco, quelle crisi di pianto che l’affliggevano da qualche giorno denotavano qualcosa di più di un semplice male fisico. E non si trattava nemmeno del nervosismo tipico della donna nell’imminenza delle nozze.

 

Certo, dopo il giorno fissato per la cerimonia, per Marina si sarebbe trattato anche di seguire il marito che lavorava in Argentina, un Paese a lei sconosciuto, e quindi di affrontare una lunga separazione da noi; ma tutto ciò non poteva giustificare l’eccesso di quelle reazioni. Anche se cercavamo, mio marito ed io, di non darvi eccessivo peso, il dubbio che fossero indice di una pena segreta rimaneva. Ed ecco la conferma. «Mamma – riprese Marina con un tremito della voce –, cerca di capirmi… non posso… non posso sposare Piero». Tra i singhiozzi era come un ritornello: «Non posso sposarlo, non posso».

 

Piero e Marina: quattro anni di fidanzamento, quattro anni non privi di tempeste, dopo di che si erano anche lasciati; ma lui era tornato alla carica fino a strappare quel sì al telefono. E una volta deciso, era stata lei stessa ad insistere per sposarsi al più presto.

 

Quei preparativi in fretta e furia… tutto diventava più difficile e faticoso: c’era un intero guardaroba estivo da allestire per quando lei sarebbe arrivata laggiù, in America Latina, e per quel che potevo mi ero messa a cucirle io alcuni abitini. Ma niente mi pesava, purché Marina fosse contenta. In fondo, a parte le ombre che c’erano state, quei due apparivano una coppia ben assortita. Così almeno pensavo; e tutta presa dall’attività febbrile di quei giorni, cercavo di non dar peso a certe nubi che avevo visto comparire all’orizzonte dopo le pubblicazioni in Comune.

 

Marina, dal canto suo, si studiava di apparire allegra, disinvolta, ma si vedeva che era una forzatura. Quando Piero veniva a trovarla, lei si agitava, diventava insofferente con quel poveretto, che non ne azzeccava una. «Ma che hai, non stai bene?». «No, no, è che sono un po’ stanca e nervosa. Si capisce, no?». Ma l’altro era sempre più sulle spine. Pino poi, mio marito, soffriva le pene dell’inferno.

 

Telefonate s’intersecavano fra noi e i nostri futuri suoceri: «Ma che è stato, che non è stato?». Figurarsi poi quando Marina cominciò a star veramente male e dovemmo chiamare anche il medico. Nessuno ci capiva niente e tutti si finiva per concludere allo stesso modo: «Vedrete, il matrimonio aggiusterà tutto».

 

Così erano andate le cose fino a quel fatidico: «Non posso sposarlo». E non c’era verso di saperne di più. Pino ed io ci scervellavamo la notte (si dormiva poco e male in quei giorni!) per darci una spiegazione, ma inutilmente. Su una cosa eravamo concordi: Marina aveva 22 anni e non era più una bambina; anche se non comprendevamo quel suo comportamento, non potevamo forzarla a fare un passo che lei non sentiva. Anzi, se la amavamo sul serio e non avevamo a cuore altre cose (i soldi che avevamo già spesi per quel matrimonio, quello che avrebbe pensato la gente e robe simili), dovevamo darle fiducia, sostenerla perché vedesse chiaro in un momento così delicato della sua vita.

Quando Marina riuscì ad avere una spiegazione con Piero, il povero ragazzo uscì distrutto da quel colloquio. E non era finita lì; stava per arrivare suo padre dall’Argentina. All’aeroporto, dove andò a prenderlo con Pino, altra tragedia: quel pover’uomo non voleva crederci. Si abbracciarono tutti e tre piangendo.

 

Quanto a me e Pino, solo nella preghiera e nel portare avanti insieme, uniti fra noi due, questa prova trovavamo la forza per non lasciarci afferrare dall’angoscia. «Sarà ciò che Dio vuole – ci dicevamo –, l’importante è che torni la pace soprattutto per Marina. Eravamo convinti che alla fine Dio ci avrebbe fatto trovare il bandolo della matassa.

Otto giorni prima delle nozze (era il 22 dicembre) la decisione di nostra figlia fu irrevocabile e bisognò comunicarla anche agli altri parenti, amici, conoscenti che venivano a farci gli auguri e già portare i primi regali. Lo stesso giorno, dietro nostra insistenza Marina accettò di andare a star un paio di giorni presso una famiglia amica per distrarsi.

Mancava poco a Natale. Ci avevamo tenuto sempre tanto a questa festa, ma chi ci pensava più? Fu Massimo, nostro figlio, a ricordarcelo, strappandoci a quell’inerzia che spesso ti prende dopo una forte mazzata. «E’ vero, è successo quel che è successo, ma è Natale… Bisogna pur mettere un segno che è Natale anche per noi». E in poco tempo costruì un presepe piccolo, semplice e senza arzigogoli, ma carino.

 

Marina tornò a casa la sera del 23. Guardandola in faccia – era sciupata, pallida –compresi quanto avesse sofferto, certo più per noi che per sé. Ci abbracciammo senza una parola. No, non era stato un capriccio il suo. Solo in seguito, dopo aver incassato il colpo, sarebbe riuscita a spiegarsi: a dirci che dopo il ritorno di Piero dall’Argentina, si era accorta che «non era più quello di prima» e, considerando i precedenti già così burrascosi, trovava difficile capirlo e le era venuta una paura invincibile al pensiero di trascorrere il resto della sua vita accanto a una persona divenutale d’un tratto estranea. Nei giorni in cui stava male si era ripetuta: «Lo sposo e parto, poi sarà quel che Dio vorrà» (era per non darci un dolore); ma poi si era convinta che non era giusto.

 

Questo ci avrebbe detto. Ma intanto era la vigilia di Natale e, come gli anni precedenti, si rinnova per ciascuno il miracolo della gioia; stavolta una gioia conquistata e per questo più interiore, discreta, con un che di solenne, di sacro come forse non l’avevamo mai provato prima, perché era scaturita dall’aver condiviso il patire. E quando a mezzanotte, riuniti attorno alla grotta di sughero, vi introducemmo il Bambinello, ci guardammo in faccia: io, mio marito, i nostri figli. Con Gesù il presepe adesso era completo. Era veramente il simbolo della vicinanza di Dio, era più che un simbolo. 
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