Quel mestiere tramandato
Il loro posto di lavoro lo hanno ereditato di generazione in generazione e lo raccontano con orgoglio, perché quello che fanno è un “mestiere identitario”. Ecco perché in molti hanno deciso di mettere mano agli album di famiglia e tirare fuori le vecchie fotografie in cui nonni, papà – così come loro fanno oggi – vendevano in giro nei luoghi simbolo di Roma i souvenir. Sono i cosiddetti ricordari, o come preferiscono definirsi “urtisti”, principalmente ebrei romani che con i loro banchetti da ambulanti appesi al collo vendono ai turisti riproduzioni di monumenti e oggetti religiosi.
Fino a domenica la storia di questi particolari commercianti la si può vedere nell'esposizione “Urtisti e ricordari a Roma. Passato e presente di uno storico mestiere”, allestita all'interno di una sala del museo di Roma in Trastevere, in piazza Sant'Egidio, promossa da Roma Capitale Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza capitolina ai Bei culturali e dal Centro di Cultura ebraica della comunità ebraica di Roma.
«L'idea della mostra è nata dalle fotografie, circa 300, che gli urtisti stessi hanno raccolto e che appartengono alle loro famiglie da anni – spiega Miriam Haiun, direttrice del Centro di cultura ebraica della Comunità romana – quindi da un lavoro di ricerca e poi grazie anche a un audio-documentario di Giovanni Piperno che ha intervistato degli urtisti e le ha poi trasmesse sul terzo canale della radio in cinque puntate. Abbiamo fatto un montaggio più ristretto ed è quello che si può ascoltare venendo a visitare l’allestimento. La mostra è suddivisa in due sezioni – continua ancora Miriam Haiun -: una che segue il lavoro specifico degli urtisti, ovvero coloro che andavano a lavoro con la cassetta appesa al collo con le loro mercanzie, principalmente souvenir, e urtavano le persone per farsi notare e quindi vendere. Oggi vengono chiamati ricordari, o peromanti perché andavano in giro per Roma. Quindi in questa sezione c'è una selezione di foto che abbiamo raccolto; la seconda sezione è invece una analisi socio-economica della società ebraica di Roma, come esce dal ghetto attraverso la storia dei venditori ambulanti ebrei, poiché nel ghetto potevano fare gli stracciaioli».
La storia degli urtisti è davvero antica, risale addirittura all'antico ghetto ebraico, quando gli ebrei svolgevano questo mestiere. Ai primi del Novecento un’autorizzazione del Vicariato di Roma permise loro di vendere rosari ai pellegrini. Questo mestiere continuò anche nel periodo fascista, e le licenze ufficiali venivano tramandate di padre in figlio. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale il Comune concesse le licenze ai due gruppi nati da una divisione interna tra gli urtisti stessi decidendo anche una spartizione del “territorio” dove poter vendere la loro merce.
Ma non c'è solo il passato: oggi gli urtisti hanno il volto giovane, ad esempio, di David Di Segni: 37 anni, una laurea in Scienze Politiche e figlio e nipote di urtisti. «Un po' la crisi un po' la voglia di continuare la tradizione della mia famiglia, da sette anni faccio anche io questo mestiere – racconta David -. Mi ricordo già da piccolo la massa di turisti e facevo da mascotte. Ho anche una foto di quando avevo 4 anni sotto la scalinata di piazza di Spagna sul banco di mio nonno e così attiravo i turisti. Oggi vendo più o meno le stesse cose loro: statuette riproduzioni di sculture o di monumenti, articoli religiosi. È un mestiere identitario e difficile perché si sta in mezzo alla strada, e si ha a che fare con la gente, la polizia, i ladri. Siamo gli occhi della città».
Ma non ci sono solo ebrei, come racconta Fabio Gigli, anche lui figlio e nipote di urtista. «Anche nel mio caso è un mestiere che si tramanda – dice il signor Fabio -, lo ha fatto mio nonno e lo faceva mio padre. Non è un mestiere che si inventa dall’oggi al domani. Vendiamo souvenir nei luoghi più belli al mondo e accogliamo di fatto il turista in città. Oggi il problema principale è l’abusivismo. Negli ultimi anni e troppo spesso siamo confusi con qualcosa con cui non abbiamo nulla a che vedere. Possiamo modificare la nostra struttura di vendita – aggiunge – e trasformare anche il nostro lavoro, possiamo diventare un info point, visto che già di fatto lo siamo, possiamo vendere i biglietti dei musei».
Ma la mostra vuol essere anche qualcosa di altro, un’occasione per far conoscere chi sono gli ebrei di Roma, al di là delle giuste commemorazioni delle deportazioni, del dolore e della tragedia che ha colpito un popolo. Un modo di guardarsi senza lacrime e dolore che fa vedere gente che lavora e si diverte e fa economia. «Sono tante le iniziative che in questi ultimi anni stiamo organizzando – afferma il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici -, come la notte della kabalà, la notte bianca dell’ebraismo romano, il festival internazionale della cultura e letteratura ebraica. E ovviamente eventi come questo vogliono dare la percezione di quella che è la vita degli ebrei nel quotidiano, del vissuto. In questo caso – continua Pacifici – raccontiamo le radici ben salde degli ebrei nel territorio romano, una presenza che risale a duemila e duecento anni fa, tanto che le prime testimonianze si possono vedere a Ostia antica. Per un 99 per cento gli urtisti hanno regolari licenze rilasciate dal Comune di Roma, in anni antichi, con dei permessi speciali papalini che qui sono ricordati e che permettevano ai viandanti di ritornare con un piccolo ricordo di Roma».