Quel che resta dell’uomo
Anni fa, frequentavo lo studio di un amico scultore. Entravo, mi sedevo: lui lavorava, si parlava sì e no, io guardavo il nascere, lento e informe, di un’opera; fotografavo nella mente lui, lo scultore al lavoro e ciò che nasceva. Rivedendo le sessanta foto in bianco e nero con cui magistralmente Dino Pedriali evoca, nella mostra romana, lo studio di George Segal, nella sua fattoria in campagna, penso che forse a Pedriali è capitato come a me: così che le foto di lui ed i ricordi miei si cuciono assieme, ora ed oggi, davanti alle sculture dell’artista. Guardo le sue opere. Ecco un donna, né bella né brutta, come tanti di noi, alla fermata del bus. Sembra assurdo, ma mi passa per la mente Caravaggio, la Maddalena dalle mani in grembo, accorata come questa figura qualunque, la bocca fra l’amaro e il dolce, la mente occupata in molti pensieri, mentre il corpo pesa sul sedile lucido. Non è assurdità, il ricordo di Caravaggio: Segal traeva spunto dal passato, per dire cose grandi nella normalità del contenuto. The Italian restaurant (il ristorante italiano, 1988), con l’uomo anonimo seduto a prendere il caffè, offre dietro le spalle un dettaglio “carnale” di Masaccio, vacuo come una pubblicità accattivante: ma occorre spingere l’occhio al fondo del volto, come faceva Segal, per capire che a lui interessa la gente comune, uomini in un incrocio, donne davanti ad uno specchio ad osservare il corpo sfatto dal tempo. Non c’è in Segal, nella sua umanità “normale”, diversamente da Caravaggio, il segno di una trascendenza, ma piuttosto di una immanenza: il divino oggi è nascosto, obliato, lo si esplora in ciò che resta dell’uomo. I volti di Segal non hanno pupille. Non è solo eco classica, retaggio di culture esotiche, ma modo nuovo di espressione: desiderio di esser svelati l’uno all’altro. Nel drammatico e cupo Abramo e Isacco (1970) son due figure reali a fronteggiarsi, in una sorta di omicidio di strada, con un Isacco adulto, implorante. Conoscitore amoroso del corpo umano, indagatore della fisicità, Segal concentra qui plasticità e delicatezza. Anche in altri lavori. Chi guarda La modella dell’artista (gesso, legno, pittura acrilica, 1992), di lontano ricordo verrocchiesco (la Dama del mazzolino) osserva lo scultore trattare il volto come fosse una bellissima maschera di cera, che attende d’essere rivelata. Perché Segal evoca la riservatezza, in modo che sia essa stessa libera di aprirsi: mai l’espressiva potenza delle sue figure diventa forzatura sentimentale, tutte stanno di fronte a noi, immobili, attendendo uno “svelamento”. Per questo, ogni suo gruppo o dipinto attira, ed è bello: vero. Da interprete del postmoderno, che cuce e ricuce la poesia per frammenti, Segal rivisita i grandi, come Cézanne, ricreando nel 1986 una Natura morta con materiali “normali”: gesso colorato legno pittura acrilica. Non c’è manierismo, né esercitazione, né orgogliosa sfida, come in altri contemporanei. Piuttosto, sintonia. Segal ama la mela o la bottiglia di Cézanne come la sua ragazza su una poltrona bianca, anonima. Questa bellezza dell’anonimato – trauma del nostro tempo – diventa per lui occasione di poesia. Unendo tradizione e attualità, rimanendo fedele a sé stesso, egli va controtendenza: insegue i brandelli della coscienza umana, esplora i segni di vita nel corpo, perché “sa” o intuisce che dentro si nasconde un sogno. Segal non è soltanto quello dell’ “oggetto reale e del calco della figura umana”, come lo definiva, bene o male, Argan nel 1980. Lui è anche l’ebreo che affronta La cacciata (The Expulsion, 1986-87) in un gruppo colossale o Il sogno di Giacobbe (1984-87) con le voci luminose proiettate sullo schermo, mentre il giovane sogna l’angelo sulla scala. Cosa sogna Giacobbe- Segal, il dream americano? Forse in questo gruppo – e nei frammenti di busti e mani coltivati con passione – più che un sogno, è un desiderio, liricamente espresso: che la vita possa essere finalmente, nel tumulto attuale, svelata a sé stessa. È la grandezza, ed il lascito, a fine mostra di George Segal.