Quei foreign fighter che nessuno vuole
L’11 novembre la Turchia ha iniziato a espellere gli ex combattenti del Daesh di nazionalità straniera, chiamati foreign fighter, detenuti nelle carceri turche e in quelle dei territori curdi di recente occupati con l’operazione Peace spring.
Il primo jihadista allontanato è stato il 39enne Muhammad Darwis Bassam, di origine giordana e passaporto statunitense. È stato scaricato al confine con la Grecia, ma le guardie greche non gli hanno permesso di passare, per cui è rimasto accampato nella terra di nessuno per tre giorni, finché i greci non hanno avviato la procedura di consegna alle autorità statunitensi.
Il presidente turco Erdogan ha commentato: «Il terrorista americano di Daesh rimasto bloccato nella zona cuscinetto al confine con la Grecia non è un nostro problema, le espulsioni continueranno». Nei giorni successivi verranno espulsi 23 foreign fighter europei (2 irlandesi, 10 tedeschi, 11 francesi).
Secondo le autorità turche, gli espulsi europei saranno alla fine circa 2.500, un quarto degli oltre 10 mila miliziani stranieri del Daesh fatti prigionieri, la maggior parte dei quali si trova ancora in aree controllate dalle Ypg curde, ma che i curdi stessi chiedono ai Paesi di provenienza di riprendersi.
Anche se i curdi del Rojava non minacciano di espellerli come sta facendo il governo turco, dopo il tradimento di Trump e l’invasione nella loro terra, le milizie Ypg non garantiscono di riuscire a mantenere la custodia dei prigionieri, anzi ci sono già state delle evasioni. E poi ci sono le mogli e i figli dei combattenti stranieri del Califfato: secondo una stima si tratterebbe complessivamente di 70 mila persone (ovviamente non tutte di origine europea), anch’esse in carcere o ammassate in campi profughi più o meno controllati.
Il problema non è nuovo, sono mesi che se ne parla, ma finora ben pochi Paesi hanno accettato di farsi carico di queste persone. Qualcuno ha accettato bambini o famiglie se avevano dei parenti che li accoglievano, ma la maggior parte dei Paesi europei, e non solo, non hanno mezzi giuridici adeguati per accusare e processare i foreign fighter di ritorno.
Il presidente americano Trump ha più volte minacciato i Paesi europei su questo tema, senza ottenere altro che un imbarazzato silenzio. Al G7 di Biarritz, a fine agosto, Trump aveva tuonato: «Ci sono migliaia di foreign fighter del Daesh in questo momento e l’Europa deve prenderli, e se l’Europa non li prenderà non avrò altra scelta che liberarli nei Paesi da cui provengono, che sono Germania, Francia e così via».
Parallelamente, il 14 novembre si è riunito a Washington un summit di ministri degli Esteri dei 30 Paesi partecipanti alla coalizione anti-Daesh (c’era anche il ministro italiano Di Maio). Francia e Qatar hanno proposto, secondo il New York Times, di istituire una Corte internazionale per processare sul posto i foreign fighter senza rimpatriarli. Già, e dopo?
Oltre i soliti toni forti di Trump e di Erdogan (e la loro sintonia) e le furbizie franco-qatariote, è vero che dal 2011 in poi sarebbero arrivati in Siria, per combattere nelle file del Daesh, molti foreign fighter. Si calcola che siano stati intorno a 40-45 mila, da 50 o 60 Paesi, la maggioranza dei quali non europei.
E questo dato evoca una domanda immediata: da dove sono entrate in Siria tutte queste persone? Secondo molti osservatori, la risposta non è difficile: dalla Turchia, percorrendo quella che alcuni hanno chiamato “l’autostrada del Jihad”, soprattutto attraversando il confine di Antakia sotto gli occhi (chiusi) delle guardie turche. Erdogan, che ora recita la parte dell’indignato perché l’Europa fa orecchie da mercante, in realtà avrebbe favorito l’ingresso in Siria degli allora aspiranti combattenti per il Califfato.
Per tornare ad oggi, cosa significano queste “espulsioni” di ex foreign fighter europei? L’Ue accetterà anche stavolta di pagare alla Turchia una tangente, come ha fatto dal 2016 per i profughi (6 miliardi di euro), pur di non assumersi la gatta da pelare? I Paesi europei continueranno a vendere armi a tutti, ma tenendosi ai margini del ginepraio di interessi, lotte di potere e ipocrisie incrociate che fin dall’inizio alimentano le guerre siriane?
C’è però un’altra domanda, almeno una fra le tante, che bisogna porsi nell’immediato. Che succederà con gli altri ex combattenti, quelli che non verranno espulsi? Si dice che alcuni di loro (pochi o molti?) abbiano ricevuto ufficiosamente dai turchi un’alternativa: restare in carcere ed eventualmente evaderne per tornare tra le fila dei risorgenti gruppi jihadisti, oppure arruolarsi nelle milizie islamiste filo-turche, vale a dire nell’esercito parallelo fedele ad Ankara che conterebbe già 14 mila duri e puri che imperversano ad Afrin e lungo tutta la cosiddetta safe-zone recentemente occupata. Fake news?