Quegli oggetti innominabili

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Ha 26 anni Rregjina, una laurea in letteratura albanese conseguita presso l’Università di Scutari, e fin qui nulla di strano. Ma fa piacere sentirsi ricordare che anche l’Albania è terra di poeti, ricca di storia e di cultura. Terra percorsa da popoli assetati di libertà, di animi dal respiro universale; basti pensare all’albanese Madre Teresa, per limitarci ad un passato recente, futura santa a tempi di record. Rregjina sorride della mia sorpresa e prende a raccontarmi di lei e della sua famiglia. Storie di ordinario eroismo in quest’Albania che in pochissimi anni ha subito cambi di scena repentini: dalla dittatura alla rivoluzione, fino ad una sofferta ricerca di stabilità sociale. Ultima di cinque figli di una famiglia del nord del paese, Rregjina vorrebbe sfatare le scontate associazioni dell’immaginario collettivo che fotografano l’Albania come terra di profughi affamati, di clandestini buttati a mare, di intrallazzi con la mafia. Di un paese insomma, che a un pugno di chilometri da noi, è diventato sinonimo di degrado e sottosviluppo. “L’ho capito solo più tardi: anche i miei, pur durante il periodo della cosiddetta chiesa del silenzio, non hanno mai rinnegato la fede, per loro era un fatto concreto: quante volte venivano a pranzo dei poveracci che i miei incontravano per strada. Il cibo più buono era sempre per loro e spesso anche il letto più comodo. Ricordo ancora quando la mamma mi mandava a portare pacchi di viveri e vestiario a persone bisognose, il tutto racimolato a fatica, in quegli anni di fame e miseria”. Lo sguardo si fa assorto mentre cerca di ricordare con precisione un vissuto ancora recente: “Le scelte politiche dei nostri governanti ce le siamo ritrovate appiccicate addosso come un marchio indelebile. Assieme a una pesante eredità di progressivo isolamento internazionale, nel paese era stato bandito ogni credo religioso e la propaganda ufficiale sbandierava ovunque che l’Albania prosperava grazie alla dittatura del proletariato… Ma persino la mia sensibilità bambina avvertiva una grossa dicotomia tra quello che c’insegnavano a scuola e ciò che si sussurrava in casa. “La realtà erano i turni di lavoro snervanti dei miei: la mamma in una cooperativa agricola dello stato, di giorno, e curva sulla macchina da cucire, di notte; mio padre che passava da un lavoro all’altro nella fatica di trovare un impiego stabile. Alla sera o al mattino presto, poi, lo vedevo salire in soffitta e leggere a lungo assorto ed immobile. Impossibile resistere alla curiosità: un giorno sono salita anch’io e ho visto che in una vecchia valigia conservava vari testi religiosi e un’immagine della Madonna. Tutti oggetti “innominabili” in quegli atei anni Ottanta”. “Avevo dieci anni quando ho ricevuto in casa il battesimo, da un sacerdote amico di mio padre; ma spesso mi veniva da dubitare di un Dio che esisteva solo dentro le mura di casa mia e per di più segretamente. A scuola, per le strade, nei discorsi della gente, nessuna traccia, se lo si nominava era per negarne l’esistenza”. Gli anni passano, e arriva il 1989. Il terremoto politico innescato dal crollo del muro di Berlino estende le sue crepe fino all’Albania: rivolte studentesche, scioperi, esodi di massa rendono la vita difficile al nuovo presidente Alia, costringendolo a sostanziali modifiche nella politica interna ed estera, portando il paese alle prime libere elezioni del 1991. Rregjina vede i genitori piangere di gioia, sente raccontare storie tenute nascoste per anni, verità inaudite. “Noi giovani eravamo confusi e disorientati, erano migliaia le domande che facevamo agli adulti: perché non avete parlato prima? Perché avete lasciato che si distruggesse l’anima di un intero popolo, i valori di libertà di una nazione? E Dio, Dio dov’era durante il regime?”. Rregjina si iscrive all’università, dove più che mai si respira un clima di precarietà generalizzato: niente biblioteche o sale di lettura, pochi i valori comuni e nella maggior parte dei compagni un’inedia senza ideali. “Mi sentivo spaccata, piena di contraddizioni: come credente volevo approfondire il rapporto con un Dio semi-sconosciuto che faticava ad emergere dal fango dell’angoscia e del senso di vuoto diffuso nella nostra generazione cresciuta nel clima ibernante dell’ateismo. Anch’io ero tentata di pensare che la fede fosse solo un sogno. “Non essendo comunque il tipo che sta a guardare, ho deciso di dare una mano in una casa di accoglienza per bambini abbandonati, poveri, anziani e ammalati. Nei volti di quelle persone ho iniziato ad intuire che quell’idea di Dio stava prendendo concretezza in me e nelle mie amiche: abbiamo ripreso le lezioni di catechismo e qualcuna si è riavvicinata ai sacramenti”. Le alterne vicende politiche che sfociano nel colpo di stato del 1997, rappresentano per tutti il ritorno di un incubo: tornano i sequestri, le vendette, i suicidi e i fratricidi di ogni tipo; sparatorie notte e giorno in un caos quasi incontrollabile: è di nuovo buio sull’Albania. “Per una circostanza fortuita, vengo a conoscere i Giovani per un mondo unito: il loro credere a ogni costo nella possibilità di riportare pace e unità in una terra come la nostra che pare l’emblema della divisione, della violenza civile e della frammentarietà sociale, è come una ventata di aria fresca che mi porta alla decisione di spendermi tutta per questa causa, tanto più ora che un’altra ombra si allunga nuovamente sulla nostra terra: i rumori di guerra del vicino Kosovo “. Rregjina sposta il mirino: dimenticato il senso di vuoto personale, accoglie la disperazione di chi le sta accanto: “Ho imparato a riconoscere “in tutto ciò che non è pace, gaudio, bello, amabile, sereno” il volto di Gesù. E l’immagine di un Dio crocefisso mi si sovrapponeva a quella dei profughi che arrivavano a frotte cercando un rifugio. Ogni donna, ogni bambino affamato e con gli occhi pieni di terrore era una provocazione alla mia fede, un grido che domandava una risposta”. Ormai c’è dentro fino al collo, e pur essendo alla vigilia di un esame importante se ne va con un’amica in un centro di prima accoglienza ai confini col Kosovo per condividere fino in fondo un pezzo di strada di quelle vite stremate. “Un pulmino che faceva la spola tra Scutari e la frontiera ci dà un passaggio: otto ore di viaggio su una strada tutta buchi. Non ho parole per spiegare la realtà che mi sono trovata davanti: la guerra e le sue conseguenze solcavano i volti consumati, gli sguardi vuoti e senza speranza, erano nello sfinimento di donne, bambini, vecchi. In quell’assoluta mancanza di tutto non c’era distinzione di razza o religione: anche la chiesa era in prima fila ad aiutare quelle persone per il 90 per cento musulmane. Andavamo a letto alle due o alle tre di notte, e alle sei eravamo già in piedi e c’era anche chi non andava a dormire affatto”. Storie incredibili quelle che racconta: “Ho visto una mamma che si è portata in braccio per tre giorni il bambino morto perché non voleva che fosse seppellito nella fossa comune; una tomba sulla quale pregare era l’unico desiderio che le era rimasto. O quella donna con sei figli, trascinati alla frontiera nell’illusione che lì avrebbero riabbracciato il padre. Ma non era vero: l’avevano trucidato in casa e lei glielo aveva nascosto per portarseli al sicuro, in Albania: è stato davanti ai miei occhi che la madre ha detto loro l’assurda verità”. Io aiutavo particolarmente nella cucina del campo e nella distribuzione del cibo. C’erano poi mille altre cose da fare, ho cercato di non risparmiarmi”. Tornata a Scutari un fatto inaspettato: anche le sue amiche sono tutte impegnate negli aiuti ai kosovari che momentaneamente alloggiano nello stadio della città. Si danno da fare senza sosta, dando le poche cose che hanno, perfino la loro stanza, a chi ha bisogno di lavarsi, di fare il bucato, di riposare in un letto vero. “Ho provato una grande gioia per questa generosità inaspettata ed ho capito che a volte Dio si serve anche di avvenimenti dolorosi per sviluppare energie nascoste, capacità di amore impensate nel cuore della gente. Ho visto tantissime famiglie stiparsi nelle case per accogliere i profughi, in una gara di solidarietà eccezionale anche se poco nota. Naturalmente non erano tutte rose e fiori: c’era sempre qualcuno che approfittava della circostanza e prestava aiuti per interesse, perché da noi si dice che i kosovari siano ricchi, ma resta vero che i più aiutavano e condividevano disinteressatamente tutto quello che avevano. “Con molti amici dei Focolari abbiamo continuato gli aiuti e più davo, più avvertivo nell’anima qualcosa di nuovo: quell’unità agognata da secoli dal mio popolo stava ricomponendosi prima di tutto in me. “Ama e capirai”, dice una canzone che ho sentito ad un incontro con i Giovani per un mondo unito. Sì, ora capivo e non ero la sola. I miei turbamenti filosofici di un tempo avevano ceduto il posto alla realtà della fraternità universale, per cui voglio spendere la vita, dentro e fuori dell’Albania”.

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