Quegli “angeli” ci hanno scosso

La domanda di amici e colleghi al mio rientro dal Molise è, più di altre volte, interessata. “Come è andata, come li hai trovati?”. Si riferiscono ai cittadini di San Giuliano di Puglia che sono andata a visitare nella loro nuova, momentanea, “residenza”: la tendopoli allestita presso il campo sportivo, dove tutti gli abitanti hanno dovuto trasferirsi. Lasciandosi il paese alle spalle o… di fronte, per meglio dire, quasi a poterlo guardare a distanza. “Provati certo, ma sereni e fiduciosi. Pieni di dignità”. È l’impressione immediata che ho di questa gente. Non vogliono giornalisti, è la prima cosa che ci viene detta. Lo capiamo, forse non si riesce a reggere più di tanto l’assedio di microfoni e telecamere magari non sempre rispettose della tragedia di queste 1100 persone la cui vita è stata scombussolata in pochi secondi. Col collega fotografo ci accostiamo al campo con rispetto, con delicatezza, senza andare a caccia di chissà quali notizie o di immortalare in un clic chissà quali immagini. Quello che vogliamo è condividere da vicino i sentimenti, le paure, le speranze. Guardare negli occhi, ascoltare, partecipare. Capisci subito che quelle donne vestite di nero e col volto scavato devono essere madri o nonne dei bambini morti; e ti immagini che quei bambini di età scolare dovevano trovarsi nell’edificio crollato. Qualcuno di loro sta disegnando nella tenda adibita a scuola: un foglio riempito di nero e grigio basta a farti vedere “dentro”. Tanti degli ospiti del campo hanno perso tutto: anche le loro case, come la scuola, sono crollate. Ventisei famiglie, lo sappiamo, hanno perso un figlio ed altre tre le madri. Altri la casa ce l’hanno ancora in piedi ma inagibile. San Giuliano è lì, ben visibile a due passi, ma nessuno, eccetto i residenti, è autorizzato ad entrare in paese. Accompagnati dai vigili del fuoco vanno a recuperare le loro cose. Tornano al campo con borsoni o semplicemente con sacchi neri dove hanno infilato la roba più necessaria. Un ragazzino, contento, mi racconta che è riuscito a portar via persino il proprio computer. Un’anziana signora spacchetta con soddisfazione un paio di calzini nuovi, appena ricevuti. Alcuni padri di famiglia si dirigono verso le loro tende per portare ai propri cari quanto sono riusciti a recuperare in casa. Poco più in là un pullmino della Misericordia distribuisce indumenti. Non c’è folla, non c’è ressa. “Cosa serve adesso, in che modo si può aiutare questa gente?” mi domando e chiedo. Da più parti la risposta è unanime: “Sono i soldi per ricostruire quello di cui c’è bisogno”. Già, perché anche se la signora Rosetta risponde al telefonino dicendo: “Quanne mi chiami non sto mai in camera mia”, è anche vero che quella “camera” è una tenda blu dove dieci persone trascorrono 24 ore al giorno. “Io ho fatto persino cinque anni di guerra – mi dice il signor Pasquale -, ma st’esperienza del terremoto è ‘na cosa terribile. A 85 anni non m’immaginavo di finire i miei giorni fuori da casa mia. Però mi sono già iscritto nell’elenco per essere ospitato negli alberghi. Alcuni amici miei hanno paura de irasinni (andarsene), ma con l’inverno ch’arriva non possiamo stare nelle tende o nelle roulotte. Speriamo che quanto prima ci abbiamo le case prefabbricate, così stiamo meglio. Una cosa però la debbo dire: i soccorsi sono stati prontissimi e qui al campo ci trattano bene. Appena un’ora dopo la prima scossa erano già arrivati i primi mezzi da Campobasso”. E che siano trascorsi sessanta minuti vuol dire che gli interventi sono stati tempestivi. Il capoluogo dista infatti più di 60 chilometri dalla zona colpita dal sisma e la strada di collegamento, la statale 87, oltre ad essere trafficata e ad una sola corsia, deve inerpicarsi per un lungo tratto di montagna fino al valico di Morrone a 900 metri sul livello del mare, per poi ridiscendere ai 462 metri di altitudine di San Giuliano passando attraverso non poche curve e tornanti. Aveva ragione il signor Pasquale. Già l’indomani della nostra visita si viene a sapere che il trasferimento presso alberghi e residence della costa è cominciato. L’arrivo improvviso dell’inverno che qui è davvero gelido ha velocizzato le decisioni. E adesso? Il rischio più grande è che, come per altri disastri, passata l’onda emotiva si torni alle proprie occupazioni e ci si dimentichi in fret- ta della gente che invece ha tutto il diritto di tornare alla normalità anche lì. E c’è un altro pericolo: che, finita l’emergenza, si torni a trascurare la prevenzione. L’abbiamo visto tante volte ed anche in questa occasione: Protezione civile, vigili del fuoco, Misericordie, Caritas, Croce rossa, volontari di tutto il paese con generosità e in grande numero accorrono sui luoghi del disastro. Lavorano senza risparmiarsi, scavano giorno e notte, gioiscono per i salvati, piangono per quelli per cui non c’è più niente da fare. Consolano, assistono, incoraggiano, danno da mangiare, tirano su le tende, distribuiscono coperte. Un esercito della solidarietà che è un vanto per tutti. Emblematica una scena a cui assisto mentre sono alla tendopoli. Un gruppo di vigili del fuoco va incontro alla maestra Clementina, una di quelle che si è salvata. Chiedono di accompagnarli dalla prima bambina che hanno estratta dalle macerie, da quell’altra che si era rotto il braccio, da quello che si era fratturata la gamba. Quei bambini tirati fuori non potevano restare anonimi a chi gli aveva ridato la vita. Ma appunto, quello che occorre schierare è l’esercito della prevenzione. Le polemiche su quello che si sarebbe potuto fare per evitare questa tragedia sono scattate puntuali come era logico aspettarsi. Le solite storie di rimpalli di competenze e di responsabilità che evidenziano l’assoluto bisogno di una sinergia operativa degli organi addetti. Niente però potrà ridare la vita a quelle 29 persone che, oltre ad essere vittime del terremoto, sono in parte vittime di negligenze umane. E forse dobbiamo proprio agli “angeli” di San Giuliano se l’Italia è stata scossa da nord a sud. Nelle sue viscere più profonde, come succede quando ci vanno di mezzo degli innocenti che alla vita si erano appena affacciati. Forse grazie al loro sacrificio qualcosa si sta muovendo in fatto di prevenzione. “Non siamo stati capaci di difendere i nostri bambini – ha detto ai funerali il capo dello stato Ciampi -. Questa dolorosa esperienza ci deve insegnare a fare in modo che queste cose non accadano più”. E ci deve obbligare, aggiungiamo noi, a verificare come mai la metà dei nostri edifici scolastici non ha il certificato di stabilità statica, più del 70 per cento non possiede un sistema antincendio, il 60 per cento non rispetta le norme igienico-sanitarie stabilite dai parametri europei. Come mai le eser- citazioni nelle scuole in caso di terremoti, incendi, crolli, previste dalla legge 626 del 1994, non vengono effettuate almeno nel 30 per cento degli istituti. Come mai… La scuola, in quest’occasione, ha avuto dalla vita una grande lezione, impartita prima di tutto da quelle maestre che si sono prodigate per i loro alunni come fossero loro figli. Che ci hanno insegnato che tra i banchi non devono circolare solo nozioni; che ci hanno mostrato come le pareti debbano essere finestre aperte sulla vita in grado di formare le future generazioni. Quegli istituti chiusi per giorni in tutta Italia e soprattutto al centrosud dove la situazione è più fatiscente, reclamano sicurezza. Un’emergenza da affrontare, dunque. Senza panico certo, ma non facendo a scaricabarile. I rilevamenti in corso aprono uno spiraglio di speranza. Ai genitori vanno date certezze. Trenta paesi tra Molise e Puglia, altri in Sicilia, ancora una volta chiedono: “Non dimenticateci”. Anche la Sicilia ha tremato: Dall’eruzione dell’Etna al terremoto nel catanese. “Siamo tutti figli di Mongibello” recita una canzone in dialetto.Mongibello, ovvero l’Etna, il vulcano attivo che coi suoi 3.323 metri è il più alto d’Europa. Quando arrivi dal mare lo vedi già da lontano spuntare innevato sopra una coltre di nubi come una mitica isola. Quando arrivi in aereo, in genere lo sorvoli. Lo vedi, imponente, anche da terra. Lo senti, quando comincia a sbuffare, pure da lontano. “Un immenso gatto di casa – lo definiva Sciascia – che quietamente ron- fa ed ogni tanto si sveglia, di una distratta zampata copre ora una valle ora l’altra, cancellando paesi e giardini. E appunto come i gatti di Eliot, ha tre nomi diversi: Etna, Mongibello e il terzo segreto”. E proprio di recente il vulcano si è svegliato offrendo, ancora una volta, uno spettacolo che, a vedersi da lontano, può esaltare o atterrire. Quelle fumate rosse che spiccano nel cielo buio sono qualcosa di impagabile. Ma certo, da vicino, è tutt’altra storia. Ne sanno qualcosa gli abitanti dei paesini etnei. E non solo. Il magma che avanza travolgendo tutto quello che incontra; le scosse sismiche che spesso accompagnano le eruzioni; i lapilli di lava che arrivano a coprire di cenere nera Catania,Taormina, Messina e addirittura Reggio Calabria, come è successo in quest’ultima occasione. Mongibello può anche far paura, sebbene il rapporto tra il vulcano e i suoi abitanti abbia da sempre dei connotati che agli estranei possono apparire incomprensibili. L’Etna è amato e rispettato, “come una madre”, dicono tanti siciliani. Fornisce acqua, rende fertile la terra. Dal 396 a.C., data della più antica eruzione descritta dagli storici, ai giorni nostri, le bocche a più riprese vomitano magma incandescente, mettendo spesso a dura prova quanti devono limitare i danni. Che per fortuna questa volta sono stati contenuti. Ha fatto peggio il terremoto che ha seminato panico a Santa Venerina (il centro più colpito, dove un migliaio di persone hanno avuto la casa lesionata), Acireale, Guardia Mangano. Una coincidenza solo temporale con l’eruzione. Da lì a pochi giorni si sarebbe verificato il terremoto in Molise: un’occasione per i siciliani di guardare subito a chi era stato ancora più provato. E a San Giuliano sono arrivati aiuti anche da Santa Venerina. Un esempio ed un monito per noi a non dimenticare che anche laggiù, nell’isola, c’è bisogno di ricostruire. Quali malattie dopo il terremoto?: Reazioni fisiche e psicologiche degli scampati al sisma. Qualche consiglio medico Oltre ai traumatismi fisici che hanno colpito le persone ricoverate immediatamente negli ospedali, alcuni dei quali con notevoli ripercussioni su organi interni vitali (come l’insufficienza renale che ha richiesto l’applicazione del rene artificiale in un caso), la popolazione esposta al terremoto può andare incontro ad infezioni delle vie respiratorie, come bronchiti e broncopolmoniti dovute al freddo. Queste, a loro volta, possono complicare preesistenti malattie cardiocircolatorie specialmente nelle persone anziane, con seri rischi per l’immediata sopravvivenza. Bisogna poi tener presente quali potranno essere le reazioni emotive degli scampati. L’esperienza diretta ad un evento che comporta morte o lesioni gravi, può dar luogo al così detto “disturbo post-traumatico da stress”. Esso consiste nel ricordare con angoscia ed improvvisamente l’evento stesso, o nel sognarlo accompagnato da incubi devastanti. Si può instaurare uno stato d’agitazione incontrollabile, disadattamento, paura intensa o, al contrario, riduzione della reattività, fino ad una e propria “anestesia emozionale”. L’individuo può andare incontro ad una marcata riduzione dell’interesse ad attività normalmente piacevoli. L’ansia può raggiungere livelli tali da provocare insonnia, o frequenti risvegli ed incapacità alle normali occupazioni. Per un nonnulla l’individuo si preoccupa o va incontro ad improvvisi scoppi d’ira; è facilmente irritabile. La capacità di concentrarsi può diminuire in modo consistente. Non si hanno notizie precise circa la percentuale delle persone che possono andare incontro a questi disturbi, ma si può presumere con buona approssimazione che essa possa andare da un terzo alla metà degli esposti al terremoto. La percentuale potrebbe salire ulteriormente nei bambini tratti in salvo dalle macerie della scuola. Si consideri poi che anziani, adulti e bambini dovranno elaborare il lutto dei loro parenti o amici. Sotto questo profilo la naturale compattezza umana che è più forte nei piccoli paesi, insieme alla proverbiale generosità e solidarietà della popolazione italiana, saranno di grande aiuto per uscire da un tale dramma. La caritas si mobilita Molteplici le iniziative di solidarietà in tutta Italia. “Un intervento unitario delle chiese locali, in grado di valorizzare al meglio il contributo di parrocchie, gruppi, associazioni, singoli”. Questo, in sintesi, dice mons. Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana, lo scopo del Centro di coordinamento interregionale che la Caritas ha attivato a Larino, uno dei centri colpiti dal terremoto del Molise. “Davanti a tragedie simili – prosegue Nozza – la preghiera per le vittime e per i familiari è l’espressione più forte della chiesa per partecipare al dolore. Ma è doveroso anche un intervento concreto per far fronte ai numerosi bisogni materiali e psico-sociali di tante persone nella disperazione. In ogni parrocchia si stanno attivando dei centri d’ascolto con il compito di accogliere richieste e collegarli alle risorse disponibili per canalizzare in modo diretto la generosità che tutta l’Italia sta dimostrando”. Per sostenere gli interventi in atto anche sulle nostre pagine abbiamo lanciato un appello (vedi a pag. 27 la rubrica “Guardiamoci attorno”).

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