Quattro passi nel sogno

Un ingenuo, chiese una volta a Salvador Dalì: “Cos’è il Surrealismo?”. “Il Surrealismo? Sono io”, fu la risposta. Una boutade, certamente; ma dietro una battuta ci può essere sempre del vero. Il Surrealismo, infatti, già quando André Breton lo “lanciò” con il Manifesto del 1924, è fenomeno al tempo stesso personale e multiforme, più che corrente artistica o letteraria, è filosofia, stile di vita: “fede nella onnipotenza onnipotenza del sogno e nel gioco disinteressato del pensiero “. Ma, per conoscere la vita, è necessario indagare l’uomo, esplorandone il mondo sommerso tramite la psicanalisi: oguno con il proprio cammino, la propria espressione d’arte (“Il Surrealismo sono io!”). Il che spiega la varietà dell’universo surrealista, pur nella somiglianza dei temi fondamentali, quali la donna l’amore il mistero. Una scuola di esperienze onnivore, di fantasia libera fino all’angoscia o alla pazzia: una, alla fine, insaziabile ricerca di infinito. Che anche oggi, oltre gli smarrimenti e gli eccessi, ha forse qualcosa da dire. Se si guarda, in mostra, la Piazza d’Italia di De Chirico (1914) ci colpisce lo spaesamento sentimentale che cerca di ricostruire sé stesso con i manichini, forme inconsapevoli dell’origine dell’amore. Ma in Dalì – il più popolare, forse, dei surrealisti, anche se da essi presto “rigettato” – l’angoscia si fa, in alcune opere degli anni Trenta (Le Rêve approche, Personnages dans le désert), fantasma della vita, deserto dell’esistenza. Dalì “scopre” nuovi pianeti percorsi da soli di colore freddo: un sogno surreale, oltre il visibile. E se Magritte simbolizza il mistero in una maschera d’uomo, dai fiori al posto degli occhi, Man Ray imprigiona la bellezza antica in un torso legato (Vénus restaurée). Mirò, invece, gioca con l’onirico puro: la sua anima sembra una farfalla impazzita dietro alla seduzione del colore. Il cammino di Max Ernst segue un tracciato diverso. Nel suo lungo percorso (morrà a Parigi nel 1976 a 85 anni), questo tedesco che Claude Lévi-Strauss riteneva il massimo pittore del secolo, si è continuamente evoluto. Il suo è un canto, sull’amore e la morte: dubbi, incertezze, e gioie. Con un linguaggio insofferente della tradizione, estrosamente libero nella tecnica, fedele all’ispirazione inconsapevole dell’attimo. Visionario già nel 1912 con Intérieur et paysage, pochi anni dopo (1925) nelle Colombe bianche è il simbolo a rendersi protagonista: due colombe, una ricamata in pallido e l’altra, riflessa su di un legno, si nutrono di linee, corrispondenze e color sé stesso con i manichini, forme inconsapevoli dell’origine dell’amore. Ma in Dalì – il più popolare, forse, dei surrealisti, anche se da essi presto “rigettato” – l’angoscia si fa, in alcune opere degli anni Trenta (Le Rêve approche, Personnages dans le désert), fantasma della vita, deserto dell’esistenza. Dalì “scopre” nuovi pianeti percorsi da soli di colore freddo: un sogno surreale, oltre il visibile. E se Magritte simbolizza il mistero in una maschera d’uomo, dai fiori al posto degli occhi, Man Ray imprigiona la bellezza antica in un torso legato (Vénus restaurée). Mirò, invece, gioca con l’onirico puro: la sua anima sembra una farfalla impazzita dietro alla seduzione del colore. Il cammino di Max Ernst segue un tracciato diverso. Nel suo lungo percorso (morrà a Parigi nel 1976 a 85 anni), questo tedesco che Claude Lévi-Strauss riteneva il massimo pittore del secolo, si è continuamente evoluto. Il suo è un canto, sull’amore e la morte: dubbi, incertezze, e gioie. Con un linguaggio insofferente della tradizione, estrosamente libero nella tecnica, fedele all’ispirazione inconsapevole dell’attimo. Visionario già nel 1912 con Intérieur et paysage, pochi anni dopo (1925) nelle Colombe bianche è il simbolo a rendersi protagonista: due colombe, una ricamata in pallido e l’altra, riflessa su di un legno, si nutrono di linee, corrispondenze e colori delicati, cercando altre armonie. Più tardi, assemblerà fortuitamente (ma non del tutto) materiali diversi, fluiti dall’inconscio: un’anima senza “centro”, ma alla ricerca di pezzi rotti di sé da ricomporre. Con gli anni, Ernst amplia la prospettiva della ricerca, come se qualcosa in sé si allargasse: il colore ama le campiture estese e solari (Paysage et soleil, 1946), le esplosioni (L’heure bleu, 1947): è come se l’io si rivelasse a sé stesso dapprima e poi in un vortice luminoso agli altri (Sleeping Eskimo,19487). Nella maturità e nella vecchiaia, i soggetti si fanno meno complessi, ma acquistano in vigore, pare intravedere una meta. Nel 1968 compone Le silence à travers les ages: un sole puntillinato come un’enorme margherita gialla da cui si stacca, o verso cui vola, una foglia. Tutto il dipinto è penetrato da un silenzio che si vorrebbe dire cosmico: è questa un’opera tremenda per il senso di vuoto spaziale che ricrea, splendida per la corsa verso un respiro immenso che le è sotteso. C’è finalmente gioia, serenità – dopo momenti allucinati e tormentati. Sarà che, inconsapevolmente, Max ha lasciato libera del tutto non solo la fantasia, ma il pensiero che muove la fantasia stessa? Un pensiero, innegabilmente, infinito. Forse. Comunque è quanto, della stagione surrealista, mantiene ancora, per noi che camminiamo, il fascino – e la chiamata – a non fermarsi nell’esplorare. Dagli anni venti ai sessanta È il percorso del Surrealismo che oltre cento opere descrivono, in una rassegna ideata da Arturo Schwarz, uno degli ultimi testimoni del movimento d’avanguardia. Fra i maestri, oltre a Max Ernst attorno a cui ruota – con 27 opere – la mostra, spiccano i nomi di Dalì, Mirò, Picabia, Giacometti, De Chirico, Magritte, Man Ray,Tanguy ed alcune pittrici di talento, come Jacqueline Lamba e Leonora Carrington.

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