Quattro parole per il Giorno della Memoria
Il Giorno della Memoria stampa sui cancelli dei lager una parola: fine!
Il 27 gennaio 1945 i carri armati sovietici dell’Armata Rossa buttano giù i reticolati di Auschwitz. E per gli internati del campo di sterminio un incubo terrificante finisce di colpo. Fine! Non c’è alcun desiderio di ricordare, di narrare: solo lo sfinimento quasi irreale che accompagna la cessazione d’un incubo. Celebrare il Giorno della Memoria significa testimoniare che a situazione assurde si deve sempre tentare di apporre la parola: fine. Finché il male perdura si può cercare di trovare con esso compromessi, ci si può deprimere e affliggersi fino alla morte, si possono trovare espedienti per raggirarlo, si può accettarlo eroicamente in sé stessi: ma quando un evento esterno – i “carri armati dell’Armata Rossa” – fa evaporare la sua morsa mortale, creduta invincibile, esso scompare, non c’è più. Finito nel nulla, come la strega del Mago di Oz. Il Giorno della Memoria fa riflettere sulle volte in cui troppo facilmente si accetta passivamente il male come ineluttabile, e si perde la fiducia nel dovere di sconfiggerlo.
Il Giorno della Memoria ricorda anche che il male è un tumore maligno, che bloccato in una parte del corpo riparte subdolamente in altre, con metastasi micidiali. La fine di un male non significa la fine del Male. Esaurita la bestialità dei crimini nazisti – preceduta di pochi anni dal genocidio armeno – gli ammazzamenti di massa sono ripresi in larga misura nell’Unione Sovietica di Stalin, nella Cina di Mao, nell’Indonesia contro i comunisti, nella Cambogia di Pol Pot, solo per fare alcuni esempi, ora nei deliri sanguinari dello Stato Islamico. In nome di idee diverse il male ripropone il medesimo teorema di morte, se ne infischia delle ideologie, dove riesce affonda i suoi tentacoli. Il Giorno della Memoria impone una seconda parola: allerta! È necessario essere vigili, per riconoscere il male quando si presenta nelle sue nuove, grandi, conformazioni. Ma anche nelle sue dimensioni più ridotte. Cominciando da quando si deposita silenziosamente in noi stessi.
Il Giorno della Memoria grida ovviamente la terza parola: ricordo. Perché ricordare è indispensabile per stare vigili. Ma accenna anche ad una quarta parola: superare. Scriveva Sant’Agostino: «Che devo fare…? Supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, la supererò, per protendermi verso di te, dolce lume? Ecco, io, elevandomi per mezzo del mio spirito sino a te fisso sopra di te, supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, nell’anelito di coglierti dove si può coglierti…». La memoria può essere superata, per non arrestarsi, per buttare lo sguardo più in là, dove c’è la certezza che per quanto testardo e brutale il male sia, esso non avrà l’ultima parola. È un gigante terrificante, impressionante, ma inconsistente: se affrontato con limpida fiducia, prima o poi evapora nel nulla come la strega del mago di Oz. Certo, il “prima o poi” è doloroso, a volte tragicamente doloroso. Oggi ci inchiniamo silenziosi a questo dolore.