Quarant’anni di persone salvate e amate
«Chi sono io per giudicare un tossicodipendente?» si chiede don Ercole Artoni, a 40 anni dalla fondazione del suo Centro sociale papa Giovanni XXIII, festeggiata sabato 27 maggio a Reggio Emilia.
E ancora, un’altra citazione evangelica che è poi il verbo della comunità, fondata contro tutto e contro tutti, specie la Curia di allora: «Ama per primo senza aspettarti nulla in cambio: ama e basta». Un prete scomodo, don Ercole Artoni, povero ma concreto; impegnato ad aiutare i giovani tossicodipendenti che allora affollavano la piazza centrale di Reggio Emilia, che si bucavano tra i passanti, nell’indifferenza generale.
«Io stavo con loro – racconta l’anziano sacerdote, ormai vicino agli 84 anni – e loro mi accolsero: divenni uno di loro, cercai di ascoltarli, di capirne i dolori profondi, quei vuoti di amore che si traducevano in eroina, in droga e in furti per pagarsi le dosi. Prima arredai una piccola casa, la mia, due stanze e un bagnetto; poi un modesto centro sociale, con tanti sacrifici e l’ardore di uno Spirito che muoveva ogni mio passo. Recentemente si è formata una Onlus e a breve, grazie all’aiuto di decine di sostenitori, volontari e istituzioni pubbliche e private, una cooperativa». Sì, una grande cooperativa in un’assolata piana compresa tra Sesso e Mancasale.
5000 le persone accolte in 40 anni di lavoro, uomini e donne seguiti personalmente in nome della fede, tossicodipendenti, poveri, alcolisti, giocatori d’azzardo, emarginati e disoccupati e recentemente i rifugiati che mettono ogni giorno anche noi davanti a uno specchio impietoso.
Tante le autorità presenti, il telegramma di Mattarella, il saluto di cardinali ed emeriti vescovi; ma a Don Ercole interessano prevalentemente i suoi ragazzi, i suoi operatori, instancabili educatori di vite spezzate, logorate dalla droga, dai debiti, dall’abbandono. Il focus è su di loro, e per loro prepara e regala a tutti una chiavetta usb per scrutare quei volti, ascoltare le loro storie e vedere personalmente di cosa è capace l’uomo quando si stringe di fianco al suo simile, senza pretese e con umiltà.
«Fallimenti e limiti sono all’ordine del giorno ma guai a disperare…la dignità di un uomo vale qualsiasi cosa per noi, da 0 a 99 anni, perché ognuno qui è importante. Anzi, indispensabile all’altro. Una reciproca spalla su cui appoggiare la propria storia» dice Matteo Iori, giovane presidente della comunità.
E a sentire loro, gli ospiti, fiducia e speranza sono davvero realtà oggi.
«Io sono Ima dalla Nigeria. Ho 20 anni – anche se di anni gliene daresti almeno il doppio – e sto in comunità da dieci mesi. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, cucina, cucito, il computer. Sono vestita, ho un tetto, e tante persone che mi guardano con affetto. Non mi sento mai un’estranea: qui mi sento inserita in una grande famiglia. Anche io ora desidero lavorare per voi e ricambiare almeno solo un poco ciò che mi avete dato».
«Mi chiamo Mino, ho 42 anni, sposato e padre di due figli ormai adolescenti. Sottufficiale dell’Aeronautica, mi sono dato al gioco d’azzardo che rapidamente ha distrutto la mia vita e la mia famiglia. Ho scelto di curarmi per dare un senso di vita a me stesso e ai miei ragazzi. La prima impressione è che qui si respiri gioia e serenità. E il mio grazie speciale va a tutti gli operatori che ti stanno vicino con garbo e rispetto, ascoltandoti nei momenti di crisi e di buio. Che dire? Qui si usa dire “Buon percorso a tutti!!!”».
Drammatico il racconto di Abdulla Camara, sfuggito alle torture del regime Gambiano. «Ogni giorno muoiono centinaia di persone perseguitate, incarcerate e uccise dal governo: il 14 gennaio 2014 ho ricevuto una chiamata da un amico che mi informava di essere caduto nelle liste dei sovversivi da eliminare. Avrei dovuto squagliarmela entro la mezzanotte del giorno stesso per salvarmi, e così ho fatto. Prima sono scappato in Senegal, dove un parente mi ha prestato del denaro con cui varcare i confini di Algeria e Libia. Qui sono stato identificato, arrestato e rinchiuso per oltre sei mesi da un gruppo libico di lingua araba. Soffro molto al pensiero di quanti amici stiano morendo in mare, nel deserto, lungo le strade del Gambia. Ringrazio Dio per essere sopravvissuto alle sevizie ed essere arrivato qui dal porto di Messina. Una volta in carico della comunità, la mia vita è rifiorita: non mi sarei mai aspettato un’esperienza così umana e appagante». E ancora tante storie, vedove giovanissime con bambini da crescere, giocatori compulsivi che si sono venduti persino il letto della moglie, adulti vittime della cocaina che ha prosciugato ogni gioia e capacità di relazione, profughi di guerra del Nordafrica, ragazzi abbandonati che non conoscono i genitori.
Per tutti qui si ricomincia da capo con una nuova fiducia in se stessi e nell’altro sempre rigorosamente insieme, uno per l’altro. Intanto gli operatori tutti continuano a farsi chiamare «semplici sognatori con i piedi immersi nel fango della fragilità umana». E a nessuno viene in mente di montarsi la testa.