Quaranta chili
Finalmente entrarono tuo padre e tua sorella. Aveva dovuto attendere sprofondato sul divano una decina di minuti per riaversi dallo spavento dopo la mia chiamata e ora era irriconoscibile: i lunghi capelli biondi diventati argentei, le linee del volto piallate dal terrore e quei suoi magnifici occhi blu, che sono i tuoi magnifici occhi blu, nascosti dalle lenti degli occhiali oscurati. Tua sorella, invece, aveva una borsetta rosa: il volto dimostrava di non capire cosa stesse succedendo, ma gli occhi rivelavano che la sua coscienza aveva già capito tutto. La tua barella era circondata da dottori e infermieri. Uno, quello più vicino, mi chiese di raccontargli cosa fosse successo, mentre camminavamo verso gli ascensori. Lo ripetei in modo dettagliato, così sentirono anche i tuoi familiari. Il medico era basso di statura, gli occhi intelligenti ricordavano la calma di un tramonto marino, rotta da uno stridulo rumore. Scendemmo dall’ascensore e percorremmo un piccolo corridoio. Volevo stringerti la mano, ma l’unico spazio disponibile era rimasto ai piedi del lettino e ti guardavo: eri un po’ di ossa circondate da una pelle perlacea; fleboclisi e tubi trasparenti si incrociavano e ti facevano apparire distante, lontana, di un altro mondo.
[…] Coma grave, possibile perdita delle funzioni cerebrali, peso di poco superiore ai 40 kg, terapia di abbassamento della temperatura corporale, primi esami, furono le parole che riempirono il silenzio di quella stanza… Un attimo: poco più di 40 kg? Tu mi dicevi che pesavi poco meno di 50! Che già per me era una cifra bassissima, ma 40 kg? Te lo ripetevo da tempo che per me stavi dimagrendo sempre di più, che non avevi più muscoli, che, che, che, che… ma tanto tutto era ed è inutile. La malattia vi fa bugiarde, spudoratamente ipocrite.
Sintetizzai la tua vita in poche battute: la morte di tua madre, le difficoltà di relazione con tuo papà, di tua sorella, di noi, di te, della tua malattia, degli anni di difficoltà e di lotta, dei sintomi, dei mal di testa, delle continue vomitate, dei piedi gonfi, di tutto ciò che ti ricorderai quando e se leggerai queste righe.
Non vedevo l’ora di tornare a casa, dai miei cani. Stare un po’ con loro, dimenticare per qualche istante, se possibile, la tua vita e la mia. Con le loro buffe espressioni ingenue e i loro giochi, i pastori tedeschi mi obbligarono a distrarmi. Lanciai qualche sasso in aria, feci volare degli stracci e feci due volte il giro del giardino. La doccia ruppe l’invisibile sfera che mi allontanava dalla realtà, il luogo ambiguo dove mi ero rifugiato per non soccombere alla verità, ma insieme infuse la freddezza della razionalità necessaria per affrontare la situazione.
[…] L’unica cosa da compiere era la diminuzione della temperatura corporea per un giorno, aumentando il peso del sangue e quindi consentendo all’ossigeno di entrare nel cervello più facilmente. Era il solo modo per verificare la presenza e la gravità dei danni cerebrali. L’arresto cardiaco era dovuto non all’abuso dei farmaci ma all’ipopotassimia. In tutta la loro carriera professionale non avevano mai rilevato una così bassa presenza di potassio nel sangue. Eri disidratata e mancavi di magnesio. Il tuo comportamento alimentare, così disordinato, aveva creato le condizioni ottimali per quel risultato.
«La mancanza di ossigeno nel cervello è il problema in questi casi. Dobbiamo vedere se si risveglia dal coma; una volta risvegliatasi, può rimanere un vegetale come recuperare tutte le precedenti capacità».
Da “La caduta delle farfalle” di Alessandro Mazzochel. Città Nuova, 2016