Quanto costa WhatsApp?
Molti internauti, possessori di cellulari e fan degli SMS sono da alcune settimane in rivolta perché la celebre applicazione WhatsApp, per molti di loro, è diventata un sevizio a pagamento. L’app di messaggistica creata da Brian Acton e Jan Koum, che sta spopolando a livello planetario, prevede il pagamento di un canone annuale di 0,79 centesimi, dopo 12 mesi di utilizzo gratuito, per chi possiede un sistema operativo Android, oppure un Blackberry o Windows phone. Chi invece usa un iPhone ha versato 0,89 centesimi fin dal primo download.
Questa politica, che ad un primo sguardo potrebbe sembrare svantaggiosa più per gli utenti Apple che non per gli altri, ha suscitato accese proteste soprattutto da parte dei ‘messaggiatori’ del versante Google e Windows.
Alcuni commentatori hanno osservato che le abitudini di consumo di chi frequenta gli store della mela di Cupertino sono differenti e più propense all’acquisto rispetto a chi scarica le app da altri market place, più votati alla politica del free.
Ma cerchiamo di procedere con ordine: WhatsApp, per scelta dei due ideatori, che non nascondono la loro poca considerazione verso il sistema delle sponsorizzazioni su cui viaggia buona parte dell’economia della Rete, non sfrutta la pubblicità come modello di ritorno economico, ma si fa pagare per il servizio che propone.
I 12 mesi di uso gratuito dell’applicazione da parte di chi utilizza Android, Blackberry e Windows hanno permesso a Acton e Koum di far arrivare il livello dello scambio di messaggi giornaliero dell’applicazione a 18 miliardi. A questo punto verrebbe da chiedersi se i due abbiano modificato un contratto che inizialmente prevedeva una totale gratuità d’uso facendo leva sulla diffusione del loro prodotto. Ma non sembra proprio: il contratto che WhatsApp chiede di stipulare ai propri utenti prevede all’origine un sevizio a pagamento (a partire dal tredicesimo mese per i non ‘iphoniani’).
Ma allora perché questa rivolta da parte degli utenti?
Le ragioni sono molte. Innanzitutto l’abitudine di chi quotidianamente frequenta la Rete a considerare contenuti e applicazioni come dovuti e, soprattutto, gratuiti. Bisogna poi tenere presente che in Internet la percezione di 79 centesimi è molto più vicina, esagero un po’, a quella di 79 euro che non alla realtà: nemmeno il prezzo di un caffè. E infine, la sensazione di essere stati aggirati (“prima era gratis, ora no!”) che in questo caso non è reale, ma da imputare, se non completamente in una buona percentuale, all’abitudine che abbiamo di non leggere i contratti di utilizzo delle applicazioni che scarichiamo. In parte è una colpa degli utenti (confesso di non aver letto la licenza d’uso di WhatsApp al momento del download), in parte della lunghezza di questi documenti, che scoraggiano anche i meglio intenzionati.
D’altra parte, per tentare di valutare correttamente quello che sta accadendo, è bene ricordare che l’invio di un SMS costa mediamente, almeno in Italia, 13 centesimi, che le tariffe telefoniche per il mobile pesano sulle tasche di molti utenti per decine di euro al mese e che il prezzo di uno smartphone può essere di diverse centinaia di euro.
Credo che questi numeri e la lettura del blog dei due creatori di WhatsApp, in cui vengono spiegate le ragioni della loro scelta di non guadagnare dalla vendita di spazi pubblicitari per rispetto degli utenti, potrebbero aiutare molti degli scontenti di questi ultimi giorni a ridimensionare il loro risentimento e ad inquadrare la scelta dell’azienda non come penalizzante, ma come legittima e alternativa a quella della pubblicità.