Quanto conta davvero il Parlamento europeo? Intervista a Gianni Borsa
Il voto con la matita è ancora importante. Ci sono questioni strutturali che solo le scelte politiche possono determinare, ma molte volte si perde la consapevolezza del potere conquistato in democrazia.
Soprattutto con riferimento ad istituzioni che appaiono lontane come i palazzi di Bruxelles, anche se sempre più la nostra vita reale è determinata dall’appartenenza all’Unione Europea, che è il frutto di un lungo cammino di integrazione.
Il più grande esperimento di democrazia al mondo costruito seguendo il motto “insieme nella diversità”. L’esatto contrario dell’autocrazia. Non è mai un dato acquisito per sempre ma una conquista da far crescere per non andare indietro ed estinguersi.
Ne parliamo con Gianni Borsa che ha curato il volume “Scegliere l’Europa. Domande e risposte” promosso dalle case editrici Ave e In Dialogo.
Borsa è giornalista professionista, corrispondente da Bruxelles dell’agenzia Sir dove si occupa di istituzioni e politiche comunitarie. Presidente dell’Azione cattolica ambrosiana e direttore della rivista di studi storici «Impegno» della Fondazione Mazzolari, ha pubblicato molti altri testi di storia dell’integrazione europea e di storia del movimento cattolico.
Quanto conta davvero il Parlamento europeo in rapporto alla Commissione europea e al Consiglio europeo?
L’architettura istituzionale dell’Unione europea prevede tre istituzioni principali: Parlamento (che rappresenta i cittadini, i quali lo eleggono ogni 5 anni a suffragio universale), Consiglio (dove siedono i rappresentanti dei 27 Stati aderenti) e Commissione (27 membri, uno per Paese).
Le prime due istituzioni condividono – secondo quanto stabilito dai Trattati – il potere legislativo e di bilancio.
La Commissione è invece ritenuta l’organismo esecutivo, che verifica l’applicazione delle normative e delle politiche europee nei Paesi membri e possiede inoltre il potere di iniziativa legislativa (proporre le leggi europee).
Il Parlamento europeo, dunque, ha un ruolo notevole all’interno dell’Ue, cresciuto di gran lunga negli ultimi due decenni. D’altro canto deve sempre negoziare le norme europee (direttive, regolamenti…) e gli stanziamenti di bilancio con il Consiglio: la ricerca di accordi tra Parlamento e Consiglio è un elemento fondamentale dell’equilibrio politico in sede Ue.
Aggiungerei un altro ruolo importante del Parlamento, chiamato ad approvare la nomina del presidente della Commissione e di tutti i commissari. E può anche sfiduciare il collegio dei commissari.
Quali sono, a suo parere, a prescindere dalle polemiche di politica interne, le reali questioni in gioco nelle prossime elezioni europee? È a rischio la tenuta stessa della Ue?
Dell’Ue non si può più fare a meno. In un mondo che ha per protagonisti giganti come Cina, India, Russia, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Paesi Arabi, e nuovi protagonisti come Brasile, Sudafrica, Nigeria… ogni singolo Paese europeo da solo non conterebbe nulla sulla scena internazionale.
L’Europa comunitaria è dunque necessaria sul piano economico, politico, sociale. In sede Ue si possono cercare risposte alle grandi sfide attuali: clima, sicurezza, politica estera, cooperazione e pace, migrazioni, finanza, intelligenza artificiale e altro ancora. Sono questi i temi che dovrebbero innervare la campagna elettorale e sulle quali i cittadini dovrebbero essere informati e poi decidere come votare.
Una nota: dopo la Brexit, con i tanti guai che sta passando il Regno Unito, nessuno più in Europa, neppure il più euroscettico, sostiene sia meglio uscire dall’Ue: dunque, Europa necessaria.
L’Europa pare assente o a ricasco degli Usa di fronte alle tragedie in Ucraina e Terra Santa. Cosa manca all’Ue per esercitare un ruolo politico internazionale?
In realtà io sono convinto che la guerra in Ucraina abbia coinvolto parecchio l’Unione europea: per l’accoglienza dei profughi, per gli aiuti umanitari, per i fondi per la ricostruzione dell’Ucraina. Così pure per la risposta alla crisi energetica e alimentare che è derivata dall’aggressione russa all’Ucraina. Notevole anche – piaccia o meno – l’impegno europeo sul piano militare.
Mentre per il conflitto in Terra Santa si sta facendo ben poco se non portare aiuti alle popolazioni bisognose e invocare la tregua.
Per esercitare un importante ruolo politico occorrerebbe che i 27 Paesi membri dell’Unione mostrassero maggiore e convinta convergenza proprio in materia di politica estera e parlassero a una sola voce sui temi geostrategici.
A partire dall’insistenza per una soluzione dei conflitti per via politica e diplomatica, facendo tacere per sempre le armi. Purtroppo uno dei freni all’integrazione europea è dato proprio dai governi degli Stati aderenti, che ragionano ancora secondo schemi del passato, come se fossimo ancora ai tempi dell’eurocentrismo.
La paura davanti al fenomeno epocale delle migrazioni resta decisivo per orientare il voto. Non è controproducente, a suo giudizio, continuare a dire che abbiamo bisogno di nuova popolazione per via del declino demografico? Quale narrazione nuova è possibile?
Intanto occorre ribadire che non esiste alcuna “invasione” di migranti. Gli arrivi – per quanto tragici e sofferti – potrebbero essere gestiti senza eccessivi problemi se vi fosse una politica migratoria europea.
È una di quelle competenze che gli Stati membri non vogliono assegnare all’Ue, così che siamo ancora alla mercé dell’Accordo di Dublino secondo cui i migranti devono fermarsi nel Paese di primo approdo. E dov’è la solidarietà europea?
Del resto è altrettanto vero che siamo il continente più vecchio al mondo: abbiamo bisogno – io ne resto convinto – di popolazione giovane che, inserita nelle nostre società, possa integrarsi, lavorare, fare famiglia e arricchire la nostra vecchia Europa di nuove e giovani leve.
Di certo le migrazioni non dovrebbero essere forzate (c’è un diritto a restare oltre a quello di partire) e i migranti non dovrebbero essere lasciati in balìa della tratta. Servono, come più volte s’è detto, corridoi legali per la migrazione.
Dopo la protesta vittoriosa degli agricoltori, quale futuro vede possibile per il green deal europeo accusato di essere il frutto di un fondamentalismo ecologista?
Onestamente non vedo una vittoria degli agricoltori, semmai sono state date loro poche concessioni che non portano lontano.
Sul green deal ci sarebbe molto da dire. Dapprima voluto e sostenuto da tutti i partiti europei, invocato da innumerevoli voci, rischia ora di annacquarsi. Il suo obiettivo è la sostenibilità ambientale, compresa la creazione di un’Europa più vivibile per tutti.
Non può essere il green deal un “nemico” degli agricoltori, i quali sono (o dovrebbero essere) i primi a tutelare l’ambiente. Semmai il nemico numero uno dell’agricoltura europea è la grande distribuzione, che compra a 1 e rivende a 10.
Certamente le normative sul rispetto ambientale vanno commisurate anche alle esigenze dei produttori agricoli, senza però venir meno alla tutela dei consumatori e, dunque, dei cittadini.
Un altro problema che grava sull’agricoltura è semmai la concorrenza estera, a proposito della quale occorrerebbe una migliore vigilanza e una più precisa tutela dei produttori e dei consumatori europei. Va peraltro ricordato che l’agricoltura europea riceve notevoli sovvenzioni dal bilancio Ue.
Vasto è stato il dibattito sulle radici dell’Europa. Ma “l’albero si riconosce dai frutti”. Quali sono quelli che devono ancora maturare?
Il primo frutto che deve ancora maturare in Europa è il “demos”, il popolo europeo, ovvero sentirsi cittadini dell’Ue. Questo è un compito che non può spettare alla sola politica, ma richiede il contributo della scuola, dell’Università, dei media, delle Chiese…
Ritengo sia inoltre necessaria un’Europa più vicina agli stessi cittadini, capace di produrre risposte alle loro esigenze, bisogni, attese: è quella “democrazia utile”, quindi “Europa utile”, di cui ha più volte parlato David Sassoli. Un’Europa – diceva – che innova, che protegge e che sia “faro” di pace, democrazia e diritti.
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