Quanti erano seduti al tavolo della pace?
Il primo giorno del summit, atteso dal mondo intero, cioè il 27 febbraio, mi trovavo in una bettola di Saigon per il pranzo e osservavo le notizie alla tv: le facce della gente comune, dei lavoratori, delle massaie con cui condividevo la mensa, mostravano una grande soddisfazione per quest’evento (di gran lusso) che si teneva nella capitale vietnamita, proprio in quei minuti, mentre noi mangiavamo a 1 euro e mezzo, tè compreso. Di colpo, il mondo si era accorto che esisteva il Vietnam e che il loro amato Paese era all’altezza della scena mondiale. Il solo fatto che entrambi i presidenti e le loro diplomazie abbiano solcato mari e cieli per incontrarsi, sedersi a un tavolo, consumare pasti insieme è già un risultato importante e positivo, aperto a successivi sviluppi. Si dice infatti da queste parti: «Il dialogo e la pace nascono a tavola, apprezzando quanto l’altro ha preparato per te e ringraziandolo d’esser venuto a sederti con te». Se le armi tacciono, è già un ottimo risultato, tanto più se si tratta di armi atomiche.
Ma di fronte alle telecamere del mondo intero, che aspettavano il compimento della “favola della pace”, è calato il gelo quando, prima della firma di una dichiarazione congiunta, Trump ha girato i tacchi e se n’è andato via. Le maggiori testate giornalistiche del mondo, come il Washington Post, il New York Times e al-Jazeera, hanno avuto commenti duri, ma a mio avviso affrettati. Oggi, dopo alcuni giorni, si susseguono commenti di esperti internazionali che vedono nel fatto di non aver firmato un accordo o una dichiarazione “giusto per la foto”, un fatto addirittura positivo, perché un percorso è stato avviato e non si è ritornati ai toni da conflitto, con minacce di lancio di missili, sempre più potenti. Forse ciò significa che si sta arrivando al nocciolo del problema, da entrambe le parti.
Kim-Jong-un, in una rara risposta a caldo ai giornalisti, che chiedevano di spiegare che significasse la sua intenzione di ridurre la potenza nucleare, ha affermato: «Se non fossi intenzionato a farlo, non sarei qui in questo momento». Nella conferenza stampa di tarda notte, dopo la partenza di Trump per gli Usa, il ministro degli Esteri della Corea del Nord, Ri Yong-ho, ha affermato di fronte ai media (cosa insolita per un regime solitamente molto riservato nel diffondere notizie) che Pyongyang aveva avanzato una «proposta realistica», includendo lo smantellamento del complesso nucleare di Yongbyon, e che in cambio la Corea del Nord chiedeva a Washington di «togliere parzialmente alcune sanzioni del 2016 e 2017, ma non nel loro complesso», cosa diversa da quanto ha affermato Trump ai media, riportando la richiesta dell’esenzione dell’imbarco nella sua totalità per una parziale denuclearizzazione. «Il mondo teneva il fiato sospeso e attendeva notizie dal summit e c’è stata una grande delusione», ha affermato Victor Gao, direttore della National Association of International Studies. E Jan Oberg, direttore della Transnational Foundation for Peace and Future Research: «Trump si sbaglia a fare il bullo. Sono gli Stati Uniti che devono fare un’offerta per primi perché hanno tutte le carte nelle loro mani». Gao ha continuato: «Gli Stati Uniti e la Corea del Nord difficilmente riusciranno ad arrivare alla pace e alla denuclearizzazione nella penisola coreana da soli; la situazione richiede la partecipazione di molte più nazioni come la Cina e la Russia, che hanno un ruolo cruciale e importante nella regione». E ha continuato Oberg: «Il processo di negoziato attuale tra Washington e Pyongyang non è una via per arrivare alla pace. Ci vuole un vero piano, e un vero piano necessita la partecipazione delle Nazioni Unite». Gao ha concluso: «Sembra che Trump voglia diventare il solo eroe sul palco mondiale. Lasciamolo fare e concediamogli la possibilità di provarci ancora. E speriamo che “l’arte del negoziato” nasca in lui».
Se il summit di Hanoi è parzialmente fallito è proprio perché Trump ha voluto tutta la scena per sé. Mancava innanzitutto il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, che da sempre lavora per la pace della penisola e che nel 2018 si è recato nella Corea del Nord per ben tre volte. Mancavano i vicini potenti, cioè la Cina e la Russia, così come mancava pure il Giappone, il nemico numero 1 della Corea del nord. Al tavolo della pace tutti devono sedersi, amici e nemici. Ci vuole un approccio più unitario, che coinvolga tutte le parti, nessuna esclusa, per arrivare alla denuclearizzazione della Corea del nord e alla progressiva integrazione del Paese nel consesso internazionale.