Quando si vince anche la morte
Cristo è risorto! Ecco il grande annuncio che informa la vita dei seguaci di Gesù nei primi secoli. Le testimonianze degli scrittori e delle iscrizioni
Si stenta oggi a immaginare la sconvolgente novità rappresentata dalla resurrezione per i primi seguaci di Cristo, specie per quelli provenienti dal mondo pagano. È una irruzione di luce e di aria vivificante in un carcere oscuro. Cristo è risorto; la morte, il più temibile avversario, è vinta.
Certamente, lacrime e cordoglio non sono banditi per sempre: lo saranno solo dopo questo tragitto terreno; tuttavia perdono il loro carattere assurdo, disperato. Se il pagano arriva appena ad augurare ai propri morti «ti sia lieve la terra», con la struggente nostalgia di chi sa che non vedranno più la «cara luce del sole», il cristiano proclama con una gamma pressoché inesauribile di sfumature la sua fede nella vita che non passa: «Viva in pace… sia nella pace… nella pace e nel luogo del ristoro…»; tutte espressioni che stanno ad indicare il possesso tranquillo e definitivo dell’amicizia con Dio.
Ma la resurrezione non è soltanto un evento da attendere: fin da ora la carità fa, di coloro che sono inseriti in Cristo, altrettanti "risorti" che, pur nelle tribolazioni, conoscono una gioia e una pace di cui il mondo pagano non cessa di stupirsi.
L’evento pasquale diviene il punto focale per gli autori cristiani del I e II secolo, come si legge nelle celebri lettere di Clemente Romano e Ignazio d’Antiochia, composte rispettivamente 63 e circa 75 anni dopo la morte di Cristo. È quanto traspare anche dalle sublimi espressioni di fede contenute in preghiere e inni, spesso anonimi, specie là dove si accenna, tra l’altro, al lavacro del battesimo o al cibo eucaristico come pegno dell’immortalità futura.
Nelle catacombe troviamo ovunque effigiati con forza espressiva, se non sempre con mano esperta, episodi biblici e simboli attinenti alla resurrezione. Le raffigurazioni dei miti antichi, così popolari nell’ambiente ancora prevalentemente pagano, non tramontano subito; spesso essi vengono "interpretati" alla luce della fede ed investiti di un significato nuovo, come avviene col mito della Fenice che rinasce dalle sue ceneri, assunto a simbolo dell’immortalità dell’anima, oppure col mito di Amore e Psiche, nel cui bacio si vuol vedere simboleggiata la resurrezione e la felicità eterna.
Così, il soffio vitale della resurrezione di Cristo invade la Chiesa primitiva e compenetra di sé, a livello popolare, tutte le realtà umane: dalle espressioni più semplici e quotidiane della vita sociale, alle testimonianze artistiche, letterarie e liturgiche.
A titolo di esempio, ecco tre brani che si segnalano anche per il valore letterario e l’autorevolezza di chi li ha composti.
Preghiera al Risorto – «Tu hai bevuto per noi il fiele/ perché fosse spenta in noi ogni amarezza;/ hai bevuto per noi il vino acido/ per sollevare la nostra stanchezza;/ sei stato vilipeso per noi/ per poterci inondare/ di una rugiada immortale;/ hai lasciato che i bastoni ti colpissero/ per assicurare alla nostra fragilità/ la vita eterna;/ sei stato coronato di spine/ per coronare i tuoi fedeli/ con i verdi allori della carità;/ sei stato avvolto in un lenzuolo/ per poterci rivestire della tua forza;/ sei stato deposto nella tomba/ per darci una grazia nuova nei secoli nuovi».
(Da: Bonnet, Supplementum Codicis Apocryphi; Acta Tomae, 124)
Invocazione di una morente – «Tu hai mitigato per noi il terrore della morte, Signore; hai fatto del termine della nostra vita, il principio della vera vita. Fai riposare per un po’ di tempo i nostri corpi, solo per un po’ di tempo; e poi li risvegli dal sonno allo squillo della tromba finale. Ci affidi, quasi un sacro deposito, alla terra plasmata dalle tue mani, ma poi a lei riprenderai i nostri mortali e miseri resti per tramutarli in immortale bellezza».
(Gregorio di Nissa, Vita di santa Macrina, PG 46, 9S4)
Lettera di un martire – «Sono frumento di Dio: che io sia macinato dai denti delle belve per divenire il pane puro di Cristo. (…) Ora comincio ad essere discepolo. Nessuna creatura, visibile ed invisibile, mi attiri a sé, affinché io sia di Gesù Cristo. Fuoco e croce, branchi di belve, lacerazioni, smembramenti, slogature di ossa, membra troncate, completa macerazione del corpo, tremendi tormenti del diavolo cadano pure su me, purché io sia di Gesù Cristo.
«A niente mi gioveranno le gioie del mondo, né i regni di questo secolo. Preferisco morire in Gesù Cristo che regnare dall’uno all’altro capo della terra. Lui cerco, lui che è morto per noi; lui voglio, lui che è risuscitato per noi. Sento già le sofferenze del parto.
Siate buoni con me, fratelli: non impeditemi di vivere, non vogliate uccidermi (evitandomi il martirio), non concedete al mondo chi vuole essere di Dio. Lasciatemi cogliere la luce pura: quando arriverò là, sarò uomo di Dio».
(Ignazio di Antiochia, Epistola ai Romani, 4-7)