Quando la scuola educa
Quando una scuola è “buona”? Se ne parla molto oggi, tanto che tale denominazione (“buona scuola”) è entrata anche nella normativa. Il testo, che qui viene presentato, si pone la stessa domanda in territorio statunitense. Quali sono le scuole “buone”? Che cosa fa di una scuola (di ogni ordine e grado) una buona scuola?
I criteri che l’Autore utilizza sono presentati nel testo. Colpisce però come l’eccellenza didattica sia fortemente correlata all’idea di eccellenza morale della scuola stessa, ossia di tutti gli attori che in essa vivono e agiscono, dai docenti agli studenti, dal personale dirigente ai genitori. Mentre si parla di “benessere personale degli studenti” non si ha paura a declinarlo secondo il termine “felicità” (ibid.) che diventa, nelle analisi dell’Autore, la dimensione visibile e profondamente umana dell’arido concetto di eccellenza. Si legge, tra queste pagine, il risveglio dell’interesse per la dimensione morale della vita e dunque del compito ineludibile dell’educazione in questo campo. Il testo fa riferimento certamente al dibattito statunitense attorno alla moral education (in particolare si parla spesso di educazione del carattere). Con una sensibilità più europea preferisco parlare di educazione etica, per non cadere nelle secche di alcune declinazioni delle teorie americane, le quali si muovono tra moral reasoning e character education.
Seguendo il pensiero di Paul Ricoeur (2007) è utile distinguere tra "etica" e "morale": l’etica si occupa di comprendere "ciò che si valuta buono da fare", mentre la morale si occupa di "ciò che è giusto fare". Dunque l’etica va alla ricerca di che cosa sia una vita buona, mentre la morale si impegna nel definire regole e codici di condotta. Ricoeur assegna all’etica il primato rispetto alla morale (2007, 34): per quanto infatti si possano formulare regole, la complessità della vita resiste a ogni possibile perimetrazione, definizione e indicazione perentoria e apriorica. Vivere, e vivere una vita buona, richiede una forma di saggezza in grado di considerare ogni situazione nella sua particolarità. Ma il sapere inteso come la ricerca del bene non è cosa facile da acquisire: è come la linea dell’orizzonte che mai si raggiunge. La coscienza etica è qualcosa da coltivare in questa postura necessaria per stare alla ricerca del bene. Qui sta la necessità dell’educazione etica.
E allora che cosa è l’etica? Ricoeur la definisce un «auspicio della vita buona, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste» (2007, 34). Un auspicio, un desiderio impegnato e impegnativo, e un non-posseduto, un tendere continuo, un riferimento teleologico, tanto forte quanto continuamente da pensare e sperimentare. Ma non un gioco in-tellettualistico: è invece un’esperienza che coinvolge la vita intera. È lo stesso Ricoeur che rileva come il termine “auspicio” (souhait) risulti troppo generico e suggerisce di sostituirlo con il termine "cura": l’etica viene così a costituirsi come quel discorso che si occupa della «cura di sé, cura degli altri e cura delle istituzioni» (2007, 34).
Mi pare questa un’ottima bussola per leggere le pratiche educative, come anche le pratiche scolastiche stesse. Sono luoghi di ricerca (tensione-auspicio) del bene? E in particolare del bene comune, quello che se attualizzato consentirebbe a tutti di vivere una vita buona? Sono luoghi in cui si riceve cura? E nei quali si è educati alla cura?
Non temiamo di parlare di cura a scuola: la cura è infatti il lavoro del vivere e dell’esistere, quella fabbrica dell’essere che permette a ogni uomo di assumere la forma della propria esistenza (Heidegger 1927, 420). E ogni uomo diventa ciò di cui ha cura: se abbiamo cura di certe relazioni il nostro essere sarà formato da queste relazioni, in ciò che è bene e in ciò che è sbagliato.
Se abbiamo cura di certe idee, la nostra mente poggerà su quelle che abbiamo coltivato e risentirà della mancanza di quelle che abbiamo trascurato; se ci prendiamo cura di certe cose, sarà l’esperienza di quelle cose e del modo di stare in relazione a esse a strutturare la nostra esistenza. Se ci prendiamo cura di certe persone, le relazioni che prendono forma nel convivere con l’altro diverranno parte di noi. Se avremo cura dell’istituzione in cui viviamo (per esempio nei piccoli grandi compiti dentro la vita scolastica), daremo forma alla dimensione politica dell’esistenza, imparando a non fermarci alle relazioni vis à vis; e se vivremo dentro istituzioni giuste il nostro essere ne apprenderà la misura.
Forse è giunto il momento di tornare a parlare di educazione come cura dell’anima e della città (secondo le espressioni care al pensiero di Socrate-Platone), di un’educazione etica, spirituale e politica a scuola: che aiuti le persone a fiorire nella loro dimensione più profonda, quella che interroga le grandi domande sul bene e sul male, sul proprio ben-essere, sulla felicità comune (che dà forma a una comunità giusta). È il momento di tornare a domandarsi che cos’è la felicità, l’eudaimonia aristotelica (letteralmente "avere uno spirito buono") che cerca il bene e che realizza una buona qualità della vita, con e per altri.
Una buona scuola, allora, non può sottrarsi al compito di azzardare possibili percorsi educativi con riferimento a orizzonti di significato impegnativi. Con un’umiltà (tutta etica) capace di mantenere aperto uno sguardo critico sui discorsi che va facendo e coerentemente di profilare un metodo didattico che sappia coltivare nelle giovani menti la consapevolezza della necessità di sviluppare a loro volta una disposizione critica e riflessiva.
Luigina Mortari, docente di Pedagogia generale e sociale
Direttore del Dipartimento di Scienze Umane, Università degli Studi di Verona
Da “Quando la scuola educa. 12 progetti formativi di successo” di Samuel Casey Carter, pp. 200; € 15,00. Città Nuova, 2016