Quando il giornalista viene rapito

Domenico Quirico rapito in Siria. Il confine tra coraggio e rischi corsi torna in primo piano
Domenico Quirico

Dopo venti giorni di assenza di notizie, il quotidiano torinese La Stampa ha voluto rendere pubblica la scomparsa del proprio inviato speciale in Siria, Domenico Quirico, un reporter esperto di 61 anni, non certo un principiante. La sua strategia sui terreni più delicati e infidi è semplice: pochissimi contatti digitali, mimetizzazione tra la popolazione, attenzione ai dettagli quasi maniacale. È solito telefonare pochissimo, già altre volte ci si era preoccupati per la sua sorte, anche recentemente, in Mali. Nel 2011, in Libia, era già stato rapito assieme ad alcuni colleghi, il suo autista era stato ucciso, e dopo due giorni era stato rilasciato. Questa volta, dopo 6 giorni di assenza di notizie, La Stampa, d’accordo con la famiglia, ha avvisato la cellula di crisi della Farnesina. Ora, 20 giorni dopo che Domenico Quirico ha varcato la frontiera libanese dirigendosi verso Homs, la notizia è diventata di dominio pubblico.

Fin qui la cronaca. Due note paiono ovvie e necessarie. In primo luogo, va sottolineata la insopprimibile sete di verità, di desiderio quasi esistenziale di conoscenza della realtà, di uno spicchio pur infimo di realtà, che abita nello spirito dei reporter di guerra. È per questo che tanti giornalisti rischiano la propria vita, non solo e non tanto per fare lo scoop del secolo, o per mostrarsi su Facebook con la sahariana inzaccherata di fango e il ciuffo ribelle ben modellato su uno scenario di morte e distruzione. Quirico è certamente un professionista discreto e tutt’altro che succube della sindrome da visibilità assoluta. Le sue motivazioni paiono professionali ed esistenziali, come scrive un grande esperto del giornalismo di guerra, Mimmo Càndito, autore di un monumentale I reporter di guerra: «Occorre una empatia profonda per le sofferenze dei popoli, stare in mezzo a loro» per rischiare la pelle a ogni istante, «come oggi sta accadendo a Quirico», scrive su La Stampa.

Ma c’è anche l’adrenalina. Nel pericolo, dicono i medici, la sua secrezione aumenta a dismisura per vincere l’inevitabile paura. Si vuole guardare in faccia la paura, paradossalmente quasi più della stessa realtà. Alla lunga l’adrenalina dà assuefazione. Nel mio piccolo, per quel poco che mi sono trovato sui teatri delle guerre, in Albania, Georgia e Iraq, posso testimoniare che sì, il senso del pericolo si appanna, lasciando un desiderio insopprimibile di cercare di capire la realtà fino in fondo, senza sconti, spietatamente. Il reporter di guerra deve perciò fare i conti con questa duplice spinta: sta a lui, spesso nella solitudine più assoluta, decidere dove spingere il proprio margine di rischio.

Sì, c’è poi l’annosa questione dei costi che vengono imputati alla collettività nazionale quando uno di questi reporter si trova ad essere rapito, o ferito, o addirittura ucciso. Costi spropositati, certamente, ma incalcolabili e aleatori. Alcuni giornalisti che si mettono in pericolo per imperizia e spavalderia, francamente, meriterebbero di dover rimborsare quanto ci fanno spendere. Ma nei casi come quello di Quirico, reporter di guerra coscienzioso e tutt’altro che gradasso, tale questione pare fuori posto. Nonostante sia già alla seconda esperienza di rapimenti sui terreni infidi delle guerre arabe.

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