Quando i profughi erano italiani
La pandemia ha rallentato l’immigrazione? Non pare. Il più rilevante fenomeno epocale registratosi a partire dalla fine del secondo millennio, cioè le migrazioni dei popoli da Sud a Nord e da Est a Ovest del pianeta, continua pure nel terzo decennio del XXI secolo. E contemporaneamente a quello dei migranti, prosegue l’afflusso dei profughi.
Negli ultimi anni, in un Paese come l’Italia, si è riflettuto molto sul fatto che tra i primi migranti dell’età contemporanea, a iniziare dal tardo ’800, insieme a spagnoli, portoghesi, greci e altri sudeuropei, c’eravamo pure noi, gli italiani, partiti a decine di migliaia verso Americhe, Australia e Nord Europa, per tacere dell’emigrazione interna Sud-Nord. Tutto ciò è noto. Quello che invece si ricorda meno è che la storia ha calato gli italiani non solo nei poveri panni dei migranti in cerca di pane e di lavoro, ma anche in quelli persino più scomodi e miseri dei profughi. Nel secolo scorso è successo almeno in tre occasioni.
Diciamo subito che i profughi italiani sono figli dei colonizzatori italiani. Cioè quasi sempre dipendono storicamente dalle nostre vicende coloniali. I primi sono stati i profughi dall’Africa Orientale Italiana, comprendente Etiopia, Somalia ed Eritrea, conquistata dall’esercito italiano comandato dal generale Badoglio nel ’36. Un “impero” che durò solo pochi anni. Gettatosi nella guerra a fianco di Hitler, Mussolini nel Corno d’Africa dovette vedersela con gli inglesi, che appoggiati dalle truppe del Negus presero Addis Abeba e vinsero gli italiani, tra ’40 e ’41, togliendogli le colonie nuove fiammanti.
Così iniziò il dramma dei nostri civili, corsi a migliaia laggiù a lavorare, costruire e produrre nell’interesse sia proprio che degli africani e ritrovatisi sconfitti, privi di tutto e internati nei campi di concentramento britannici in loco. Mesi d’inferno: un’epidemia uccise migliaia di bambini. Così gli inglesi, umani in questo, caricarono i prigionieri italiani su 4 navi della Croce Rossa – le famose Navi Bianche – e li lasciarono salpare e raggiungere Napoli, nel ’42, dopo aver circumnavigato l’Africa (Suez era off limits) e sofferto disagi e privazioni d’ogni tipo. Erano in 28 mila, specie donne, vecchi e bambini. Partiti pochi anni prima, i nostri primi profughi facilmente si reintegrarono, riunendosi ai parenti e tornando alle loro case e attività.
Il secondo capitolo sui profughi italiani, forse il più doloroso e tragico, si ha con l’esodo giuliano-dalmata e istriano. Durò molto, troppo, dal ’43, anno dell’armistizio Italia-Alleati, alla metà dei ’50. Coinvolse da 250 a 350 mila persone, tutti italiani di famiglia, lingua e cultura (molti nati in Istria o Dalmazia) che dovettero abbandonare quelle terre dopo il passaggio delle stesse alla neonata Yugoslavia comunista del maresciallo Tito. O perché contrari al regime marxista, o perché minacciati e vessati dalla nuova classe dirigente titina, anche se non erano stati fascisti, non avevano commesso abusi ed erano semplici lavoratori, imprenditori e professionisti.
È in questo dramma che si iscrive pure l’incubo delle Foibe (1943-45), dove vennero gettate e lasciate morire decine di migliaia di “mancati profughi” che non avevano fatto in tempo a partire. Il reinserimento dei rimpatriati giuliano-dalmati e istriani fu lento e complicato. L’Italia era povera, loro avevano potuto portar via ben poco dei loro averi. E, peggio di tutto, per un po’ vennero guardati con insofferenza e sospetto, se non con odio, da un’opinione pubblica messa su specialmente dal Pci di allora, stalinista senza se e senza ma. Oggi è tutto diverso, alle vittime innocenti delle Foibe è reso il dovuto onore e i profughi del Nordest adriatico sono non solo perfettamente integrati, ma ormai giunti alla 3a o 4a generazione.
Infine il caso più recente e più noto. È il ’69-70 e nella Libia il colonnello Muammar Gheddafi, appena salito al potere con un colpo di Stato militare, in odio ai colonizzatori italiani decide di rispedire in patria tutti i nostri connazionali lì residenti. Che sono ben 35 mila e si vedono costretti a mollare lavoro, interessi, vita, tutto, senza indennizzi, e a tornare in un’Italia che i più giovani di loro a volte non hanno mai visto. «Saranno reimmessi nel nostro ciclo produttivo», ricordo che disse l’allora ministro degli esteri Aldo Moro. E così fu, più o meno, potendo “quella” Italia permetterselo. Meglio non pensare a cosa accadrebbe oggi.