Quando i cattolici non erano moderati
A proposito di un testo curato da Luciano Guerzoni che si interroga sul ruolo dei credenti nella vita politica.
Probabilmente hanno ragione coloro che invitano a seguire i programmi della De Filippi per capire il popolo a cui occorre rivolgersi per chiedere il consenso politico. Già il termine è sbagliato, perché non esiste più il popolo ma “la gente”. Per comprendere meglio la lezione bisognerebbe recuperare un frammento della televisione degli anni Ottanta, quando in una trasmissione della Carrà si recò ospite l’allora segretario del Pci, Alessandro Natta.
Si trattava di un intellettuale di solida cultura classica, proveniente dalla Normale di Pisa, dotato di una arte retorica che sembrava quasi indisponente ma che si rivelò in tutta la sua timidezza e parve quasi smarrito davanti all’inizio di quella politica-spettacolo dove bisogna essere attenti più alle battute che ai ragionamenti.
Ma se diminuisce costantemente il numero delle persone che va a votare, non tutto si può spiegare con l’indifferenza e l’ignoranza di molti, che poi al seggio comunque si recano per seguire suggerimenti anche dell’ultimo minuto. Paradossalmente sono proprio coloro che hanno una grande considerazione del significato del proprio voto che sono tentati dall’astensionismo.
La logica bipolare, così come si è andata a definire, sembra disegnare uno schema da cui non si riesce ad uscire. Come un tempo i comunisti si rendevano conto di avere per destino di morire democristiani, cioè sotto un governo comunque a guida Dc perché il sistema non prevedeva l’alternanza, ora sembra che la scelta sia comunque obbligata. O i radicali o il leghismo, per evidenziare le impostazioni ideologiche forti che finiscono per prevalere nei due schieramenti.
Prima ancora di affidarsi agli studi di marketing, converrebbe recuperare tutta una parte del Paese reale che è solo smarrita ed è di gran lunga migliore della rappresentazione esposta ossessivamente nella programmazione televisiva. Lo studio edito dalla Fondazione Gorrieri per le edizioni de Il Mulino ha un titolo che colpisce l’attenzione: Quando i cattolici non erano moderati (Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, a cura di Luciano Guerzoni, Il Mulino, Bologna 2010). Ovviamente non si tratta della moderazione intesa come mitezza e ragionevolezza di esposizione, ma come tentazione di perdere ogni carica profetica e allearsi con il potere reale.
Si tratta dei lavori prodotti in occasione del primo anniversario della morte di Pietro Scoppola, riconosciuto maestro di quell’area culturale conosciuta con il nome dei “cattolici democratici”. Una componente minoritaria,secondo l’analisi di Paolo Pombeni, come tali erano stati i cattolici aderenti alla Resistenza, ma che ha inciso in maniera significativa sul testo della Costituzione italiana per ridisegnare una democrazia diversa da quella versione ottocentesca spazzata via dal fascismo.
Il «quarto partito», come lo chiamava De Gasperi, cioè quello delle classi dirigenti che non hanno bisogno del voto per comandare, non poteva concedere un tale ruolo guida al partito cattolico. Questa tensione sempre ricorrente verso finalità sociali compromesse dall’effettivo controllo delle leve economiche, assieme alla presenza del più forte partito comunista dell’Occidente, ha segnato il difficile cammino di chi si è trovato a gestire, con realismo, le sorti di uno Stato sempre pronto a vacillare. E in gran parte, come si può riscontrare dalle varie citazioni riportate nel testo, si è trattato di persone proiettate in questo ruolo di potere pur intravedendone tutti i pericoli e le contraddizioni. Una percezione che sembra inesistente nel panorama odierno.
La serietà degli interventi raccolti nel libro, sempre chiari e accessibili, permette di ricostruire la vicenda storica fondamentale della visione alternativa tra degaperiani e dossettiani senza arrivare a conclusioni semplicistiche. Vengono così alla luce alcuni nodi fondamentali che la fine dell’esperienza storica della Dc non ha comunque sciolto. Ciò che emerge è un tipo di cristiano laicamente impegnato in politica che rimane depositario di una sana inquietudine. Tanto che negli ultimi scritti sulla “democrazia dei cristiani”, Scoppola ha contestato la tesi storica di Giovanni Gentile secondo cui «chi crede non cerca: al contrario chi crede cerca sempre e, forse, proprio chi ha deciso definitivamente di non credere che non cerca più».
Con un certo distacco temporale sembra di comprendere meglio tutte quei dibattiti che, a loro tempo, sembravano appartenere solo a certi intellettuali, come i fautori del tentativo della Lega Democratica. La questione in gioco era l’impossibile cambiamento radicale del partito democristiano nella consapevolezza, come nota Giuseppe Tognon, di arrivare paradossalmente, dopo il crollo del Muro di Berlino, alla «rinascita di una destra illiberale e confusa» che finisce per assegnare un ruolo succube alla Chiesa.
Forse leggendo queste pagine potrebbe riaccendersi una passione politica intesa, sempre citando Scoppola, «come valutazione razionale del possibile e come sofferenza dell’impossibile, aspirazione ad una eguaglianza irrealizzabile che tuttavia è il tormento della storia umana. Mi ha interessato la politica per quello che non riesce ad essere molto più che per quello che è».
Nella costruzione del nuovo mondo il cristiano, come afferma l’intervento di Paolo Prodi nel testo, è «più laico di qualunque altro uomo nella misura in cui non ha altro “idolo” a cui far riferimento. Può desacralizzare ogni forma palese e occulta di potere come sfruttamento dell’uomo sull’uomo». È il principio della resistenza contro ogni oppressione che si richiede ai cristiani proprio perché, per tornare all’ultimo Scoppola, «portatori di un annuncio che è motivo di continuo inappagamento rispetto ad ogni ordine costituito».
Quel «principio di inappagamento», come motore di un miglioramento sempre possibile e mai compiuto della società, delineato da Aldo Moro. Un moderato inteso nel senso di mite che, come hanno raccontato tanti testimoni, dai suoi studenti agli autisti agli stessi carcerieri, ha sempre trattato il proprio interlocutore con familiarità e attenzione. Forse chi lo ha fatto uccidere aveva compreso, meglio dei suoi stessi compagni di partito che lo accusavano di usare un linguaggio “fumoso”, la pericolosità di una cosi libera e forte posizione umana.