Quando a Baghdad volavano i tappeti

Non è facile scrivere oggi queste pagine. Un tuffo letterario nel passato glorioso di Baghdad non ci consente di estraniarci dalla tragica realtà odierna, che snocciola eventi drammatici: troppa sofferenza è pesata sul popolo iracheno, troppo incerto è ancora il futuro dell’Iraq. Ma la grande letteratura rimane. Ed è sempre lì, pronta a stupire chi la vuole incontrare. Come l’Araba Fenice, sa rinascere dopo ogni morte: rimane ad additare un’età d’oro così antica e atemporale che potrebbe benissimo rappresentare un futuro. È con velata tristezza, con consapevole titubanza che sfoglio questa volta le pagine delle Mille e una notte. L’esotico fascino dell’oriente, che altre volte m’aveva guidato nell’incandescente lettura di quei meravigliosi racconti, ora è scomparso. Ma appena mi addentro in quelle pagine… beh!, la poesia riesce ancora una volta a prendere il sopravvento. Forse è ingenuo senso di fiducia nel futuro; ma se il mondo è riuscito a produrre cose così belle, potrà farlo ancora. Mille e una notte: nell’antico Oriente il tempo si contava in notti e non in giorni. Da qui il motivo di un titolo così fortunato, mentre probabilmente la cifra è di origine turca: bin bir (mille e uno) che significa un grande numero. Con questo titolo s’apre la vicenda del classico della letteratura orientale più famoso in assoluto. Alcuni personaggi sono familiari a tanti bambini del mondo: Alì Babà e i quaranta ladroni, Aladino con la sua lampada magica, Sinbad il marinaio. La cornice della storia è nota a tutti: il re Shahriyar deluso e infuriato per il tradimento della moglie, si abbandona ad un odio feroce per l’intero genere femminile. Tanto che ordina al vizir di condurgli una vergine ogni notte in sposa: passata la notte con lei, ne avrebbe ordinato l’esecuzione la mattina seguente. La strage continua per tre anni finché Shahrazad, la bella, saggia e coraggiosa figlia dello stesso vizir, si offre di passare la notte col re dicendo al padre: O rimarrò in vita, o sarò il riscatto delle vergini musulmane e la causa della loro liberazione dalle mani del re e dalle tue. Shahrazad, per non essere messa a morte, per mille e una notte tiene desta la curiosità del sovrano con racconti straordinari. Col passare del tempo il re dimentica il suo odio per le donne e s’accorge d’amare teneramente Shahrazad, dalla quale nel frattempo ha avuto tre figli. Shahrazad – esclama il re alla fine della novella – per Allah! ero deciso a risparmiarti la vita prima ancora che mi presentassi questi bambini, perché ti ho vista casta, pura, fedele e pia. Possa Dio concederti le sue benedizioni… Dio mi sia testimone che d’ora innanzi allontanerò da te tutto ciò che può farti del male. È il più gioioso lieto fine. Un lieto fine sorprendente, proprio perché non provocato da un intervento magico, ma dal coraggio e dalla fantasia di una donna. È il trionfo della femminilità sul male; e di una particolare caratteristica della femminilità: l’arte del racconto… una parola detta da una donna a un’altra donna, e che l’uomo ascolta. Rimangono così, le Mille e una notte, il più bell’apologo di quest’arte sublime, che è l’anticamera della grande letteratura. Sì, ancora una volta, i labirintici racconti di Shahrazad – ora inalennati come in una collana, ora rinchiusi l’uno nell’altro come scatole cinesi – mi hanno riportato allo splendore di Baghdad, al suo epiteto di Città della Pace. Facendomi dimenticare per un po’ il tetro presente, e aiutandomi a sperare in un più umano futuro. Riportandomi alla formicolante ricchezza della Baghdad delle Notti: fatta di viuzze intricate addolcite dai sapori dei cibi speziati, dal profumo dei fiori, dei bagni, dei corpi, della legna bruciata, del muschio; dove la conversazione, il gioco degli scacchi, il vino, il sonno, si intrecciano all’eros, alla fatale passione amorosa; dove le donne sono vitali, imperiose, e gli uomini graziosi ed elastici, teneramente passivi; dove i saloni delle case sono pieni di tappeti persiani, di stoffe ricamate, di cuscini di damasco; dove ci sono molti saggi, persino tra i facchini, i barbieri e le serve, venerati dalla folla e dai i ricchi per quella sapienza universale che non si apprende nei libri; dove i giardini sono verdissimi, immagini dell’Eden, dove scorre l’acqua, e cantano gli uccelli, e le domestiche chiacchierano e cantano; dove le forme cambiano con rapidità vertiginosa: dove un jinn diventa un leone, un avvoltoio, un gatto, un serpente, una melagrana, una fiaccola ardente. Ma mi ha riportato anche, il racconto di Shahrazad, all’età d’oro dell’Islam; all’epoca dell’illuminato e forse un po’ troppo idealizzato Califfo Harun al Rashid. A quell’epoca, tra l’800 e il 1200, in cui Baghdad, col suo milione e più d’abitanti, era anche diventata una formidabile città multietnica e multireligiosa, un vero gioiello del mondo, culla della filosofia, dell’arte, della medicina e della matematica, che ospitava la Casa della Saggezza: un istituto del mondo arabo responsabile delle traduzioni e della ricerca scientifica. Allora a Baghdad i cristiani svolgevano liberamente qualsiasi attività e potevano praticare la loro religione; anche gli ebrei avevano costituito una forte comunità, ed alcuni dei suoi membri esercitavano grande influenza alla corte del Califfo. Le Mille e una notte sono novelle con una lunghissima storia: forse sono nate in India, scritte in Persia, raccolte nel mondo arabo, e infine, nel 1704, adattate da un bibliotecario francese con la passione dei viaggi, Antoine Galland, che cominciò a pubblicare un primo volume traducendolo da un manoscritto siriano del XIII secolo. L’enorme successo incontrato indusse Galland a far uscire altri volumi, aggiungendovi racconti estranei alle fonti originarie. Risulta così che proprio i più celebri di essi, quelli di Alì Babà, di Aladino e di Sinbad, probabilmente non appartengono alla raccolta originale. Che ora l’autorevole arabista Claudia Ott tenta di ripristinare in nuova traduzione (Ed. Beck) che si rifà agli studi dell’iracheno Muhsin Mahdi, professore a Harvard. Apprendiamo così, un po’ a malincuore, che le fiabe non sono 1001, ma 282. Un tentativo difficilissimo (alcuni dicono, improbabile) di restaurare il testo originale. Che ha comunque il pregio di proporre ancora una volta il mondo traboccante, multiforme, imprendibile della Baghdad dei tempi in cui volavano i tappeti magici… Dei tempi in cui la città fu salvata dall’orrore grazie alla saggezza e fantasia di una stupenda donna: Shahrazad.

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