Quale santità dalla spiritualità di comunione?

Chiara Lubich

Avevo 25 anni. Quell’estate – era il luglio del 1974 – avevo saputo che ci sarebbe stato un grande congresso internazionale di giovani a Rocca di Papa. Non facevo parte di quel gruppo, ma vi andai ugualmente e, fra tanti, nessuno si accorse della mia presenza.
Ricordo la sospensione che suscitarono le prime parole che Chiara Lubich rivolse a quei giovani e ragazze lì radunati da tante parti del mondo. “Debbo dirvi una parola – così cominciò – che trent’anni fa ha dato vita ad una rivoluzione”. In quei primi anni Settanta il desiderio di cambiare il mondo, più ancora di cambiare mediante la rivoluzione, era vivissimo tra i giovani. Quale sarà questa parola? mi domandai e forse se lo domandarono anche gli altri che con me ascoltavano.
Prima di pronunciare questa parola Chiara proseguì facendo crescere la sospensione e l’attesa: “È una parola più grande del mare che deve allontanarsi all’infinito, come quando si butta un sasso nell’acqua e si formano cerchi sempre più ampi. È una parola che Gesù vuol dire oggi, in questo secolo, agli uomini; ed egli desidera che tutti, dal primo all’ultimo, noi siamo canali, eco di essa”.
Eravamo lì, in un silenzio attento, aspettando la rivelazione di questa parola. Quando finalmente la pronunciò sentii come un tonfo al cuore; era come mi si spalancasse davanti l’infinito.
Questa parola – ci disse Chiara – è Lui stesso: Dio”.
Dio. Era una parola che avevo sentito tantissime volte. Avevo da poco tempo fatto i miei voti perpetui, donandomi a Dio totalmente e per sempre. Eppure in quel momento mi sembrò di sentirla per la prima volta e ne rimasi incantato.
Se ci venisse chiesto – proseguì Chiara –: qual è il vostro ideale? Noi dovremmo rispondere: Dio[1].
In quel momento Dio era veramente il mio ideale, l’ideale di tutti quei giovani in mezzo ai quali mi trovavo.
 
Dio, ideale della vita consacrata
 
Dio è l’ideale che ha fatto nascere la vita consacrata. L’obiettivo dei monaci, ha ricordato Benedetto XVI, “era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio… dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo[2].
Il consacrato è, per definizione, colui che “si dona totalmente a Dio amato al di sopra di tutto” (LG, 44).
Dio, è l’ideale di tutti noi che ci troviamo qui, è il tesoro per avere il quale tutto abbiamo venduto, con gioia, sapendo Chi avremmo trovato.
Essere una cosa sola con Dio, essere amore come lui è Amore, vivere la sua stessa vita, vivere nell’amore. Non è questo l’ideale che tutti ci unisce? E non è questa la santità?
 
La spiritualità di comunione, via di santità
 
Lungo la storia della Chiesa lo Spirito Santo ha suggerito tante vie di santità, tanti modi per arrivare a Dio. Ogni spiritualità, data ai nostri fondatori e fondatrici, è via di santità.
Oggi lo Spirito indica a tutta la Chiesa una nuova via di santità, che nasce da quella spiritualità di comunione, destinata a essere, come ha profetizzato Giovanni Paolo II, la spiritualità del nuovo millennio: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia”. Per realizzare questa casa e scuola di comunione, egli prosegue, “occorre promuovere una spiritualità della comunione” (NMI, 43).
Una spiritualità di comunione. Non nasce a tavolino, non è frutto di una commissione di studio. Come ogni altra spiritualità anche questa deve nascere da un carisma. Lo Spirito è stato generoso anche con questo nostro tempo, donando nuovi carismi per aiutare tutta la Chiesa a vivere la comunione.
Continuando a leggere i segni dei tempi, il beato Giovanni Paolo II ha riconosciuto nel carisma dell’unità di Chiara Lubich uno di questi carismi per la Chiesa di oggi. In alcune lettere indirizzate a “Cardinali e Vescovi amici del Movimento dei Focolari”, ha fatto notare la straordinaria sintonia fra la “spiritualità di comunione”, di cui egli si fa promotore, e la “spiritualità dell’unità” di Chiara, sino a concludere che sono la stessa cosa: “la spiritualità dell’unità e della comunione”, scriveva, caratterizzano “il vostro Movimento…[3].
La spiritualità dell’unità non elimina le altre spiritualità, quelle delle nostre famiglie religiose, piuttosto le porta a compimento e le unifica in un cammino comune. In esse, fin dagli inizi, sono presenti germi di unità che oggi siamo chiamati a vivere con nuova consapevolezza e intensità.
 
Un patto di comunione all’origine delle comunità religiose
 
Le nostre comunità sono tutte nate da un patto di unità dei nostri fondatori e fondatrici con i loro primi compagni e compagne. All’inizio delle comunità carismatiche vi è come un ac-cordo, un mettere insieme i “cuori”, gli animi e le menti; un con-senso, che porta a un medesimo sentire; un “voto”, una “risoluzione”, un’alleanza tra persone che si prefiggono di perseguire una meta comune vivendo e operando secondo un particolare stile di vita comunemente segnato dall’amore reciproco e dalla comunione.
Come non ricordare la gioia di san Francesco quando, come scrive nel suo Testamento, Dio gli donò dei frati: finalmente poteva condividere con loro il suo ideale di vita.
Da dove nasce il primo voto di Ignazio e dei suoi compagni, il 15 agosto 1534 a Montmartre, se non dall’amore scambievole e della comunione tra di loro? “Vivevamo sempre insieme – ricorda Pietro Favre –, ripartendo la camera, la mensa, la borsa… Così fu che divenimmo una cosa sola nei desideri, nella volontà e nel fermo proposito di scegliere la vita che ora teniamo tutti noi[4].
All’origine delle Suore del Bambino Gesù troviamo una “risoluzione” stipulata fra alcune giovani alle quali il fondatore, Nicola Barrè, domandò se volessero vivere in comunità unite soltanto dall’amore e senza altre sicurezze. “Noi – testimonia la prima suora, Margherita Lestocq – rispondemmo di grandissimo cuore: ‘Si, lo vogliamo, e ci abbandoniamo alla Divina Provvidenza con totale disinteresse’. Detto, fatto: entrammo in comunità[5].
Quando sant’Eugenio de Mazenod, il mio fondatore, chiese ai futuri compagni di unirsi insieme per dar vita ad una nuova comunità missionaria, gli Oblati di Maria Immacolata, propose “unanimità d’intenti”, una “intesa” nella quale, come scriveva, “ci aiuteremo a vicenda col consiglio e con le ispirazioni che Dio ci manderà per la comune santificazione”[6]. “Sento che in questa Società vivremo felici perché avremo un cuore solo e un’anima sola[7].
Soltanto in un secondo momento subentra la Regola, quasi un contratto, un vincolo giuridico che regola i rapporti e le strategie per il raggiungimento del fine. Una regola precisa, un “contratto” è necessario per assicurare alla comunità la dilatazione nel mondo e la continuità nei secoli. Ma guai se dimenticassimo quel patto iniziale con il quale si voleva camminare insieme sulla via della santità.
Se su questo patto furono fondate le nostre comunità, esse oggi potranno essere rifondate soltanto su un patto analogo che dobbiamo avere il coraggio di fare di nuovo tra di noi. Perché nelle nostre comunità non ci ridiciamo gli uni gli altri la volontà di vivere tra noi l’amore reciproco e il desiderio di camminare insieme verso la santità?
 
L’unità luogo della Trinità
 
Potremmo domandarci perché proprio in questo nostro tempo nasce una spiritualità di comunione e si rinnova il desiderio di farci santi insieme. Perché proprio oggi la Chiesa riscopre in maniera nuova il mistero di Dio che è Amore, Trinità, comunione di Persone.
Se Dio è Amore, comunione di amore, e se noi siamo chiamati a vivere Dio – e questa è la santità –, non possiamo non vivere tra di noi la medesima comunione di amore che si vive tra le Persone della Santissima Trinità. Quando Gesù ci ha lasciato il comandamento dell’amore reciproco ci ha svelato la legge di vita che lo unisce al Padre e allo Spirito. Possiamo vivere Dio se viviamo come Dio vive, amandoci gli uni gli altri. In questo amore reciproco la nostra santità, perché dove è carità e amore, lì c’è Dio.

Parlando alle persone consacrate Giovanni Paolo II ci ha aperto gli occhi sulla realtà più profonda della comunità religiosa: essa è lo “spazio umano abitato dalla Trinità, che estende così nella storia i doni della comunione propri delle tre persone divine” (VC, 41). Dal cammino di santità personale diretto verso il centro dell’anima dove dimora la Trinità, lo Spirito Santo ci sta orientando, in un cammino comunitario, verso l’unità fraterna fratelli come luogo della Trinità.
Dalla fuga dal fratello per andare da soli a Dio, la spiritualità di comunione ci porta alla ricerca del fratello per andare insieme a Dio, anzi per trovare Dio nella reciproca unità. Si spalanca davanti una via nuova di santità. Si va a Dio insieme con l’altro.
Una via, dunque, spiccatamente collettiva – come Chiara Lubich ha spiegato ai nostri vescovi amici del Movimento dei Focolari –. E in questa via collettiva i singoli trovano anche la perfezione personale. Le persone che in altre spiritualità cercano Dio in se stesse stanno come in un giardino fiorito e guardano ed ammirano un solo fiore: ammirano, amano, adorano Dio in loro. A noi sembra che Dio chieda di guardare a molti fiori, perché anche nelle altre persone è presente il Signore, o lo può essere. E, come devo amare Dio in me – quando sono sola – così lo devo amare nel fratello quand’egli è presso di me. Allora, non amerò tanto la fuga dal mondo, ma la ricerca di Cristo nel mondo; non amerò solo la solitudine, ma anche la compagnia; non solo il silenzio, ma pure la parola. E, quando l’amore verso Cristo nel fratello è reciproco, nell’incontro si vive sul modello della Trinità, dove i due stanno come il Padre e il Figlio e fra essi irrompe lo Spirito Santo con i suoi doni, anima del Corpo mistico. Quando è Gesù il motivo dell’incontro tra fratelli, si diventa uno, come Dio è uno, ma non si è soli, come Dio, pur essendo uno, non è solo, perché è Amore. Quando ci si incontra in questo modo si verifica la Parola di Cristo: ‘Dove due o tre sono uniti nel mio nome io sono in mezzo ad essi’ (Mt 18, 20). Lì è il Risorto… Egli è la santità del gruppo e di ognuno singolarmente[8].
Il fratello e la sorella, in una spiritualità che fiorisce su una ecclesiologia trinitaria, non è qualcuno che distrae, ma che ci aiuta ad edificare quell’unità che contiene Dio. Datoci da Dio, l’altro diventa sacramento per raggiungere, insieme, Dio.
 
Una nuova ascesi
 
La spiritualità di comunione, come ogni altra spiritualità, propone una nuova ascetica, che consiste soprattutto nell’amare l’altro. Sì, perché niente costa più dell’amare, dove il rinnegamento di sé, per mettere il luce l’altro, raggiunge la misura estrema. Non ha detto Gesù che non c’è amore più grande di quello che giunge a dare la vita per l’amico?
 
L’arte di amare
 
Come dunque amare? Chiara, seguendo l’insegnamento del Vangelo, ha insegnato tutta un’arte di amare, che ha sintetizzato in sei parole chiave: “amare tutti, senza esclusioni di sorta; amare per primi, senza aspettare di essere amati; amare come sé, l’altro sono io, vivere l’altro; amare il nemico; amare Gesù nell’altro, secondo le sue parole: … l’avrete fatto a Me. Amare in modo tale da suscitare l’amore nell’altro e diventi così reciproco, secondo il suo comando: amatevi come io vi ho amato[9].
Altre volte Chiara ha esplicitato alcune modalità concrete dell’amore: il servizio, ad esempio, sull’esempio di Gesù che è “venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20, 28). Egli ci ha fatto vedere la concretezza di questo amore quando ha lavato i piedi ai discepoli invitandoli a fare altrettanto: “Anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri” (Gv 13, 14).
Siamo nella linea del puro dono, che si sbriciola nei più comuni atti comunitari, in quelli che vanno dal tenere pulita la casa, al creare il clima di festa in un momento di ricreazione, dall’essere creativi nell’animare la preghiera comunitaria, al comunicare per primi la propria esperienza durante un incontro.

Un ulteriore aspetto dell’amore è accogliere e accettare l’altro. Quindi entrare nel suo stesso mondo interiore e vedere con i suoi occhi, sentire con i suoi sentimenti, condividere la sua stessa vita, tutto di lui. È la risposta all’invito di Paolo a farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, debole con i deboli, a farsi tutto a tutti (cf. 1 Cor 9, 19-23). È gioire con chi gioisce e piangere con chi piange e avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (cf. Rm 12, 5). Accogliere l’altro implica la capacità di ascolto, così che egli possa sentirsi capito fino in fondo. È capacità di silenzio, di vuoto interiore, di dare tempo all’altro.

Potrei elencare le infinite esigenze e sfumature dell’amore. Ne richiamo un’ultima soltanto, la benevolenza: l’amore vuole il bene dell’altro, si interessa all’altro come a se stesso. A Dio che chiederà conto degli altri membri della comunità, domandando: “Dov’è tuo fratello?”, non si potrà rispondere: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4, 9). Sì, siamo proprio noi i custodi dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Proprio perché membri dello stesso Corpo, non possiamo prescindere dal fratello neppure per il cammino di santità.
 
Gli strumenti pedagogici per la vita di unità
 
La sesta parola dell’arte di amare era la reciprocità. L’amore trova infatti la sua pienezza quando, raggiunto il fratello o la sorella, è capace di coinvolgerli nella medesima dinamica di amore. Soltanto la reciprocità rispecchia appieno l’amore di Dio che è trinitario. Se l’amore di una delle divine Persone non fosse corrisposto dalle altre non vi sarebbe la Trinità. Il comandamento nuovo, quello che fa vivere in terra come in cielo, implica la reciprocità: “amatevi l’un l’altro”.
La condizione per raggiungere Dio, per essere perfetti come lui, è amarsi gli uni gli altri, come ricorda l’apostolo Giovanni: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1 Gv 4, 12).
Quali gli strumenti perché il patto dell’amore reciproco sia costantemente rinnovato e sempre vivo?

Il primo è quello di accordarci per camminare insieme alla sequela dell’unico Maestro. È quanto hanno fatto i nostri fondatori e fondatrici all’inizio della loro avventura. Di qui la comunione delle esperienze di vita spirituale, la condivisione della comune sequela, di come si vive il Vangelo, donando quanto Dio va operando dentro e attorno a ciascuno di noi, come i frutti dell’apostolato, i dubbi, le difficoltà… Niente è nostro e tutto va comunicato perché tutto circoli.

Un ulteriore indispensabile “esercizio” di comunione è la capacità di vedersi ogni giorno con occhi nuovi, con quello sguardo di fede che fa scorgere nella persona accanto un figlio di Dio. L’amore crede nella possibilità di rinnovarsi dell’altro, spera nella sua risurrezione, perché l’amore “tutto copre, tutto crede, tutto spera” (1 Cor 13, 7) e ridona fiducia. Questo fino al perdono reciproco.
Potremmo rivisitare anche la correzione fraterna che la tradizione ci offre e che tante volte abbiamo dimenticato nelle nostre comunità. Non invita forse Paolo ad ammaestrarci ed ammonirci l’un l’altro con ogni sapienza? (cf. Col 3, 16).
 
Una nuova mistica
 
La spiritualità della comunione introduce anche in una “mistica nuova”, sempre legata al comandamento nuovo, che porta all’esperienza della presenza di Gesù non soltanto dentro di me, ma anche tra di noi, tra i “due o più” riuniti nel suo nome (cf. Mt 18, 20), un’unità di anime che rispecchia, stando in terra, la Trinità di Lassù, che sperimenta il Regno di Dio in mezzo a noi (cf. Lc 7, 21).
Non più la mistica di un santo, ma del Santo in mezzo a noi.
L’esperienza mistica personale del “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20) si fa esperienza ecclesiale, di Corpo mistico. È la mistica del “castello esteriore”.

Santa Teresa di Gesù parla della nostra anima è come di un castello, un castello interiore nel quale, grazie allo spegnersi di tutte le facoltà della propria interiorità, abita il Signore. Analogamente potremmo pensare a un “castello esteriore”, formato da noi tutti insieme, dove il Signore abita in mezzo a noi, grazie alla spogliazione che si realizza nel dono di me, della mia interiorità, all’altro, e grazie al dono di sé (la sua spogliazione) che l’altro a sua volta fa a me nella reciprocità dell’amore. Un castello esteriore di pietre vive, di persone unite nel nome di Gesù nel quale egli torna a farsi presente come quando lo era tra i suoi discepoli.
Parlando della comunità religiosa il Concilio Vaticano II la descrive come “una vera famiglia adunata nel nome del Signore” che, “con la carità di Dio diffusa nei cuori per mezzo dello Spirito Santo”, “gode della sua presenza (cf. Mt 18, 20)” (PC, 15). “Gode” è l’esperienza mistica collettiva, frutto del comandamento dell’amore reciproco, della spiritualità della comunione. La nostra santità è il Santo in mezzo a noi.

Tutti, almeno qualche volta, abbiamo sperimentato la sua presenza con i frutti che egli comunica: gioia, pienezza di vita, entusiasmo, forza e coraggio per vivere con radicalità l’ideale evangelico; crediamo all’amore di Dio che sentiamo riversato nei nostri cuori, ci sentiamo figli e figlie suoi, uno tra di noi e con lui. Non è un’esperienza mistica, del Mistero che ci inabita e ci avvolge?
Seguendo questa via di santità saremo una risposta alle attese della Chiesa di oggi che così si esprime, attraverso il nostro papa Benedetto XVI: “Credo che oggi… il nostro grande compito sia in primo luogo quello di rimettere di nuovo in luce la priorità di Dio. La cosa importante, oggi, è che si veda di nuovo che Dio c’è…[10].
Con la nostra unità potremo di nuovo renderlo presente e mostrarlo al mondo di oggi.
 



[1] C. Lubich, Colloqui con i gen, Città Nuova, Roma 1979, pp. 189-198.

[2] Benedetto XVI, Discorso al Collège des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008.

[3] Giovanni Paolo II, in L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2001: H. Blaumeiser – H. Sievers, Chiesa–Comunione. Paolo VI e Giovanni Paolo II ai Vescovi amici del Movimento dei Focolari, cit., p. 87; Cf. Id., Discorso ai Vescovi amici del Movimento dei Focolari, in L’Osservatore Romano, 14 febbraio 2003.

[4] P. Favre, Memoriale, a cura di Giuseppe Mellinato, cit., p. 18.

[5] Mèmoire de Marguerite Lestocq in N. Barré, Œuvres Complétes, Les Editions du Cerf, Paris 1994, p. 107.

[6] E. de Mazenod, Lettere a Tempier del 9 ottobre 1815 e 13 dicembre 1815.

[7] Id., Lettera a Tempier, 9 ottobre 1815.

[8] C. Lubich, Conversazione rivolta ai Vescovi amici del Movimento, Rocca di Papa, 10 febbraio 1984.

[9] Cf. Id., L’arte di amare, Città Nuova, Roma 20053.

[10] Benedetto XVI, Luce del mondo, p. ??.


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