Quale futuro per Stellantis? Intervista a Vincenzo Comito
Stellantis è una multinazionale del settore auto con sede nei Paesi Bassi, nata dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles e il gruppo francese Psa. Occupa al momento intorno ai 240 mila dipendenti, di cui 40 mila si trovano in Italia, altrettanti in Francia e Stati Uniti.
Si potevano prevedere le dimissioni del suo amministratore delegato Carlos Tavares dopo la sua burrascosa audizione dell’11 ottobre 2024 presso le Commissioni Attività produttive della Camera e Industria del Senato. Ma per capire le cause della crisi della presenza ex Fiat in Italia è interessante rileggere il contributo dell’economista Vincenzo Comito che cittanuova.it ha pubblicato nel 2021. Vedi link.
A Comito abbiamo perciò rivolto ulteriori domande dopo la sua più recente analisi pubblicata su Sbilanciamoci.info. L’approccio del professor Comito parte dall’aver lavorato per molti anni nell’industria (Gruppo IRI, Olivetti, Movimento Cooperativo) oltre ad aver insegnato Economia aziendale presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma e presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. È autore di diversi libri sulle grandi imprese italiane, sulla finanza e le imprese multinazionali. Tra i suoi ultimi libri: “La globalizzazione degli antichi e dei moderni” (Manifestolibri, 2019) e “Come cambia l’industria” (Futura editrice, Roma, 2023).
La sua analisi pubblicata da cittànuova.it nel 2021 prevedeva con largo anticipo la riduzione progressiva della produzione di Stellantis in Italia e quindi dell’occupazione negli stabilimenti dell’ex Fiat. Lo stesso caso della Gkn, faceva capire che gli investitori finanziari erano consapevoli della crisi imminente delle forniture al settore automobilistico. Un destino irreversibile?
Bisogna preliminarmente sottolineare che il gruppo Stellantis avrà, a parere di chi scrive, molte probabilità di cessare di esistere come gruppo autonomo e il suo destino potrebbe essere quello di fondersi con un’altra entità produttiva, sia essa tedesca, giapponese o cinese. Questo per numerose ragioni: intanto il gruppo non è presente in Asia, che oggi è il centro del settore, continente dove in effetti si produce e vendono all’incirca il 60% del totale mondiale di vetture. Poi esso appare in ritardo sull’auto elettrica, sul software (che oggi tende ormai a rappresentare circa il 40% del costo di un’auto), sulle batterie (30-35% del costo totale), mentre sta ancora avanzando nel mondo la vettura a guida autonoma, che di nuovo non sembra vedere Stellantis tra i protagonisti. L’azienda è in perdita di velocità sia come vendite che come redditività.
Ma ora si annunciano cambiamenti al vertice di Stellantis..
Il cambiamento del gruppo dirigente non sembra poter ribaltare la situazione. Certo in Italia abbiamo assistito ad un crollo della produzione, ma forse almeno in parte la stessa cosa si può registrare in Francia e negli Stati Uniti. Il fatto è che la vendite di Stellantis non vanno bene.
La politica italiana in passato si è limitata a finanziare l’azienda senza praticamente chiedere nulla in cambio, in particolare neanche un livello minimo di produzione nel nostro Paese e ha assecondato la vendita di FCA ai francesi senza battere ciglio. L’attuale governo poi non sembra avere la minima idea del cosa fare.
Cosa poteva fare la politica italiana di fronte ad un impostazione prevalente in Europa che, come dice lei, considera un tabù parlare di politica industriale?
Bisognerebbe in realtà intanto sostenere la componentistica nazionale legata in parte alle vecchie tecnologie per riuscire a portare avanti con successo una riconversione produttiva, aiutando i processi di fusione tra imprese spesso troppo piccole, aiutando inoltre lo sforzo di internazionalizzazione, di ricerca e sviluppo, di diversificazione produttiva, di miglioramento della struttura finanziaria. Per l’auto bisogna stanziare dei fondi adeguati per l’acquisto di auto elettriche, migliorando anche la dotazione di strutture di ricarica nel Paese. Poi bisogna arrivare a discutere a livello UE per un grande piano di sostegno al settore dell’auto.
Alcuni sperano in investimenti diretti dalla Cina…
Ottenere che i cinesi investano in Italia appare un risultato improbabile, data l’ostilità generale mostrata da questo governo, come da quello precedente, verso gli investimenti attuali ed eventuali del paese asiatico. Si pensi solo al caso Pirelli: il controllo azionario è in mani cinesi ma il Governo ha ridotto fortemente la sua capacità di entrare nei processi decisionali. A Bruxelles l’Italia ha votato a favore dei dazi sulle auto cinesi e così le imprese del Paese asiatico investono negli stati più amichevoli, la Spagna (dove appunto è stato annunciato l’avvio di un grande impianto per le batterie tra una casa cinese, la CATL e la stessa Stellantis, mentre un progetto simile su Termoli è in stallo), la Germania, l’Ungheria dove i loro investimenti tendono ad essere molto importanti.
Franco Bernabè nel suo ultimo libro intervista “In trappola” spara a zero contro le politiche di Clinton che hanno dato carta bianca alla speculazione e aperta la porta del Wto alla Cina nell’illusione di portare la democrazia nel corpo del gigante asiatico. Una mossa che non ha impedito, fa notare il manager del mondo mainstream, la competizione geopolitica di Pechino con gli Usa fino alla guerra annunciata prima o poi nel Pacifico.
Bisognava quindi impedire alla Cina e agli altri Paesi del Sud del mondo di svilupparsi? Ma gli occidentali non hanno per decenni predicato al mondo il libero commercio? Le idee di Bernabè, a mio parere, sono inaccettabili, tra l’altro in generale mi sembra che egli parli a nome dei petrolieri. Anche se questo potrebbe non bastare, comunque appare difficile prevedere la possibilità di reggere nel settore senza degli accordi stretti con la Cina su tutta la filiera, in particolare sia per quanto riguarda le vetture che le batterie e il software. Lo stesso discorso si potrebbe fare più in generale per tutta la filiera verde. I tedeschi lo hanno capito da molto tempo, tanto che la parte più importante delle loro vendite e ancor più dei loro profitti vengono dal Paese asiatico. Ora tutti cercano di seguire la pista dei cinesi, ma il processo appare troppo lento e troppo incerto.
Secondo quanto lei afferma, l’unica strada per invertire la crisi industriale europea è quella dell’accordo strategico con la Cina. Ma non sarebbe comunque un tipo di alleanza subalterna? Chi la potrebbe gestire?
Stellantis ha prima fatto un accordo per il montaggio e la distribuzione in Europa dei modelli utilitari di Leapmotors, mentre ora annuncia, come già ricordato, un grande investimento in Spagna con la cinese CATL per la produzione di batterie. Sempre per quanto riguarda le case francesi, anche Renault sta portando avanti degli importanti accordi di produzione e distribuzione in comune con delle imprese del Paese asiatico. Si tratta forse di alleanze di tipo subalterno? Mah, in un’alleanza ognuno porta quello che può. La Cina può fornire i prodotti e le tecnologie, noi il mercato europeo e comunque delle esperienze tecnologiche di qualche rilievo. Ma senza tali accordi, subalterni o no che siano, si perirebbe. Primum vivere. Un elemento ulteriore della crisi di tutta l’industria europea, in particolare dei settori che consumano molta energia, è stato costituito dallo stop dei rifornimenti del gas russo, ma ha pesato per il settore dell’auto il ritiro anche dal mercato dello stesso Paese, in particolare, anche se non solo, per la Renault, che vi aveva importanti impianti di produzione. Vuoto subito colmato dalla Cina.
In ogni caso Stellantis vede in questo momento in Italia, in Europa, negli Stati Uniti un forte calo delle vendite; la Cina non c’entra, Stellantis in effetti non c’è; il ridimensionamento delle vendite nel Paese asiatico è invece una causa importante di diminuzione del fatturato per le case tedesche. Pesa, comunque, per Stellantis come per le case tedesche, il fatto che le vendite di auto non si sono più riprese in Europa dopo il covid ed ora siamo intorno ad un meno 20% rispetto al 2019.
Il piano Draghi offre prospettive, a suo parere, per una linea autonoma europea?
Per quanto riguarda il piano Draghi, la sua analisi della crisi economica dell’UE appare corretta, ma il suo piano appare irrealizzabile; esso prevede, tra l’altro, maggiori investimenti per 800 miliardi di euro all’anno che non si capisce come possano saltar fuori. I burocrati di Bruxelles stanno prendendo in considerazione solo la parte peggiore dello stesso, quella che prevede un forte aumento delle spese militari.
La crisi della Volkswagen trova origine, se ho capito bene la sua ricostruzione, nella crisi delle vendite in Cina. Ma quali sono le altre cause a suo parere?
La crisi della Volkswagen viene certamente dal fatto che le vendite in Cina sono diminuite in misura considerevole, ma questo perché la società non è riuscita in tempo a produrre modelli validi, né il software relativo, anche se la società ci ha provato per tempo, però fallendo. Ma tale crisi viene anche, come già accennato, dalla diminuzione rilevante del mercato europeo. Sono poi in campo anche una struttura dei costi molto elevata e una rilevante lentezza decisionale in un settore che richiede ora invece azioni molto rapide.
Quanto incide la presenza del sindacato nella gestione delle grandi imprese come Volkswagen? È in grado di proporre una politica industriale alternativa oppure, come in Italia, può solo limitarsi a ridurre i danni?
Il sistema di codeterminazione tedesco, che vede il sindacato essere molto presente nei processi decisionali aziendali, è stato un importante fattore di successo dell’economia tedesca nonché un potente motore della stabilità politica e sociale. Ma ora il caso della crisi Volkswagen mostra che esso è in crisi come del resto lo è tutto il sistema economico e politico tedesco. Nessuno sembra sapere come uscirne, certo non cancellando i sindacati dal processo decisionale.
Carlo Calenda, da ex ministro dello Sviluppo, afferma che tutto è andato a rotoli con la scomparsa di Marchionne e accusa la Cgil di essere stata troppo morbida con gli eredi Agnelli. Come sono andate le cose a suo parere?
No, Marchionne non è stato, almeno a mio parere, un grande manager; certo è stato fortunato a afferrare l’occasione dell’acquisizione della Chrysler e bisogna considerare che è dal mercato del Nord America che da allora in poi è derivata la gran parte dei profitti del gruppo. Ma Marchionne ha rifiutato di investire nell’elettrico, perché a suo dire non aveva futuro. Si, penso anch’io che il sindacato abbia passato quasi sotto silenzio la vendita della Fiat ai francesi, come hanno fatto i grandi giornali e tutta la classe dirigente nazionale e ancora non capisco il perché.
Tutti si mostrano scandalizzati per la buona uscita da 100 milioni di euro nella liquidazione di Tavares. Ma davvero non c’è modo per impedire che il manager portoghese incassi questi soldi davanti alla tragedia dei lavoratori, a cominciare dai subfornitori, che rischiano di restare senza lavoro?
Sulla liquidazione di cento milioni di euro penso, certo, che sia un oltraggio in una situazione di difficoltà dell’azienda, che però smentisce la cifra. Ma trovo molto più inquietante che nella situazione strategica in cui si trova il gruppo, gli azionisti si siano divisi decine di miliardi di dollari di dividendi, sottraendoli ad una necessaria politica di investimenti per far fronte ad una situazione difficile ed in grande movimento. Peraltro, lo scandalo che ora si mena sulla questione da parte dei politici di destra e di sinistra appare, a mio parere, persino grottesco, avendo i suddetti signori favorito in ogni modo i ricchi e avendo protetto in particolare i loro guadagni dalla scure fiscale.