Quale Dio per la vita consacrata?
Una domanda importante e decisiva. La risposta di Chiara Lubich: Gesù in mezzo e Gesù abbandonato. Il numero di Unità e Carismi dedicato all'argomento, con riflessioni ed esperienze.
Quale Dio è “adeguato” per la vita consacrata? Il titolo-domanda di questo numero di “Unità e Carismi” potrebbe suscitare non poche perplessità. Perché la risposta appare ovvia: “Non può essere altro che il Dio di Gesù Cristo”. Perché sembra senza senso fare questa domanda a un cristiano, credente e praticante, il quale, per di più, con una speciale vocazione ha consegnato a Dio tutta la sua esistenza. In realtà, però, le cose non sono così semplici come sembrerebbero.
Per cogliere realmente la forza di questa domanda, dobbiamo considerare che la rivelazione di Dio implica sempre due poli: quello oggettivo e quello soggettivo. Se, per quanto riguarda il polo oggettivo, possiamo essere sicuri che Dio si è fatto conoscere nelle parole, nei segni e nei fatti di Gesù di Nazaret, è altrettanto vero che quella rivelazione, per compiersi, deve essere accolta, compresa, approfondita e assimilata: è il polo soggettivo, dove si manifestano i più diversi condizionamenti antropologici, storici e culturali.
La “sensibilità religiosa”, con la quale ogni persona ascolta la comunicazione di Dio, comprende ciò che può, poiché è limitata dal peso di una specifica tradizione e da un determinato contesto storico-culturale. L’incarnazione del Dio cristiano riguarda anche la sua rivelazione: essa rimane vincolata per sempre alla storia, è “condannata” a vivere la permanente dialettica tra la necessaria continuità e l’incessante novità, frutto inevitabile del divenire proprio della persona.
Questo discorso sembra molto astratto. Invece è concretissimo. La rivelazione di Gesù, quantunque contenga novità rivoluzionarie su Dio, non costituisce un novum assoluto, non cade su un terreno vergine, ma si inserisce nella storia secolare della relazione tra Israele e il suo Dio, storia della quale, oltretutto, egli è la pienezza.
Ciò significa che, nel suo manifestarsi, Gesù ha dovuto affrontare tutta una serie di inerzie, preconcetti e abitudini già profondamente inserite nella mente del popolo giudeo. La morte di Gesù sulla croce sta ad indicarci quanto fu difficile il tentativo di superarle.
La vocazione universale della rivelazione, destinata a tutte le persone di ogni tempo e luogo, è destinata a confrontarsi con la sfida della pluralità culturale. Se per la prima Chiesa l’apertura al mondo pagano rappresentò una transizione difficile e dolorosa, se i primi quattro secoli della storia della Chiesa ci raccontano quanto lavoro e sofferenza costò l’inculturazione del cristianesimo nel mondo ellenista, è facile immaginare come si possano moltiplicare queste sfide, quando il cristianesimo incontra culture millenarie, come l’India o la Cina, tanto diverse dal contesto mediterraneo.
La cultura è un condizionamento molto importante, perché stabilisce le chiavi esistenziali e i pre-concetti con i quali la persona comprende se stessa, il suo abitare nel mondo e, di conseguenza, la propria immagine di Dio. A tutto questo dobbiamo aggiungere la sfida che viene dalla storia. L’evoluzione storica non è un processo rettilineo che cresce in modo costante e uniforme. Conosce involuzioni, arresti, salti qualitativi, frequenti oblii. Cambiando la società, cambia anche l’immagine di Dio nella mente delle persone. Essa non è determinata una volta per sempre e le correnti culturali dei destinatari della rivelazione accentuano uno o l’altro tratto dell’unico Cristo. Con l’enorme sviluppo degli scambi interculturali questi mutamenti, poi, si sono accelerati in modo esponenziale.
Un’enorme distanza separa l’immagine di Cristo Re, presente in Europa occidentale negli anni ’50 del secolo passato, da quella del Cristo istrione dell’opera rock Gospel, ambientata tra gli hippies degli anni ‘60-70, e dall’immagine del Cristo guerrigliero rivoluzionario dell’America Latina negli anni ’70-80.
Per questo ci è sembrato utile chiederci quale immagine di Dio, del Dio di Gesù, risulti maggiormente adeguata ai tempi che viviamo. Non c’è dubbio che la secolarizzazione della società e la privatizzazione dell’esperienza religiosa hanno trasformato, nella gran parte delle persone, l’immagine di Dio, fino a qualche tempo fa, presente nella tradizione occidentale e hanno spinto sempre di più ai margini i consacrati, lasciandoli spesso sconcertati e a volte incapaci di reagire.
In molti ambienti l’immagine di Dio è quasi scomparsa oppure è stata diluita in concetti vaghi e impersonali, come “energia positiva” o “livello di coscienza superiore”. In altri, si percepisce una forte nostalgia per il misterioso, il “numinoso” della divinità, che riporta in vita le varie forme di religiosità precristiana. A queste persone il Dio fatto uomo appare troppo umano e non li attrae. Esse sembrano ricercare con ansia una divinità inconoscibile di fronte alla quale prostrarsi, essere posseduti da una strana miscela di fascinazione e terrore. In altri ancora, Dio è entrato a far parte degli oggetti di consumo, secondo la logica del supermercato: un Dio a mia disposizione, che non mi chiede nulla e al quale ricorro quando ne ho necessità.
Cosa possiamo dire dei consacrati? Rileggendo la storia del popolo eletto, si comprende con chiarezza che i credenti vengono sempre accecati da una tentazione: l’idolatria. Non si tratta tanto di prostrarsi di fronte a statue di pietra o di metallo. La tentazione è più sottile. Alla relazione personale con Dio si sostituisce il legame con i mezzi che Dio stesso ha donato per entrare in relazione con lui.
È più facile il rapporto con la Legge o con il Tempio, con ciò che è possibile manipolare, adattare o reinterpretare in favore dei propri interessi, piuttosto che rivolgersi alla persona di Dio, il quale non si lascia manipolare. È più semplice ingannare noi stessi, pensando che si sta compiendo la propria missione, e anche se nessuno può dirci nulla, nel cuore sappiamo perfettamente che il nostro impegno è frutto di ipocrisia.
In questo modo i mezzi che servono all’unione personale con Dio si convertono in “muri” che ci separano da lui, e invece di facilitare l’esperienza dell’amore che salva, provocano un sentimento di autogiustificazione. La preghiera, i voti, la ricerca della virtù, e addirittura la stessa Eucaristia, possono diventare degli idoli dei quali ci facciamo servitori e ai quali chiediamo di darci una immagine di perfezione di fronte alla nostra coscienza e agli altri, e che invece usiamo per risparmiarci lo sforzo di discernere la volontà di Dio.
Un uso ancora più perverso di questi mezzi si manifesta quando, attraverso di essi, si vogliono raggiungere dei fini meno giusti. Con una frequenza eccessiva, per esempio, nella vita consacrata si registrano due fenomeni: un certo “culto” della regola e il ricorso alle “tradizioni”, come se fossero fini assoluti che tutto giustificano. In realtà, questi mezzi vengono usati come delle maschere che nascondoo l’autoritarismo, il controllo esasperato delle persone, disuguaglianze negli stili di vita tra coloro che si chiamano fratelli/sorelle, privilegi, clericalismi. A volte si arriva a giustificare l’esclusione, l’infantilismo psichico e affettivo, abusi reali…
Non poche volte il rispetto formale delle norme, delle abitudini e degli stessi riti, è pura apparenza, una “normalità esteriore” che cerca, disperatamente, di nascondere la crudele presenza della solitudine, della mancanza di amore, dell’individualismo. Si dice: “Poiché non ci amiamo, almeno cerchiamo di essere educati”.
In questa brevissima esposizione delle “idolatrie” dei consacrati vogliamo anche riferirci all’eresia delle mediazioni, le cui tracce possiamo scoprire quando, per esempio, si assegna una priorità assoluta al mantenimento di una opera, costi quel che costi. Come se quell’opera apostolica fosse, per se stessa, testimone di Dio. Come se non fosse determinante la qualità evangelica della vita e delle relazioni delle persone che vi lavorano. Si dice: “Poiché non siamo santi, cerchiamo di essere almeno dei buoni professionisti”. Queste idolatrie, già presenti mentre ancora la vita consacrata aveva un ruolo sociale di rilievo, sono venute a galla nella società secolarizzata.
Questi esempi – se ne potrebbero citare molti altri – ci dicono che il problema centrale, l’inculturazione della fede cristiana nella cultura contemporanea occidentale, non è ancora risolto. Una sfida alla quale neppure il processo innovativo del Vaticano II è riuscito a rispondere con passi significativi. Per arricchire la riflessione su questo tema, il 12 gennaio abbiamo invitato gli amici della nostra Rivista nel primo forum di quest’anno, di cui riportiamo in questo numero i contributi più significativi.
La domanda su quale Dio sia “adatto” per la vita consacrata ha trovato una risposta in quei “volti di Dio” che lo Spirito Santo ha manifestato nell’esperienza carismatica di Chiara Lubich e che lei stessa ci comunica con forza e grande intensità: Gesù in mezzo e Gesù Abbandonato.
G. Cicchese ci offre un approfondimento su quel Dio che nel suo abbandono sulla croce si fa vicino a coloro che non sentono Dio vicino. C. Donegana, invece, ci introduce in quel Dio di cui possiamo sperimentare e offrire agli altri la presenza “tra noi”. Infine, V. Ballarin apre il nostro cuore su quel Dio che i consacrati e le consacrate vogliono amare con un amore appassionato.
Le testimonianze e le esperienze ci raccontano come si possono tradurre in vita concreta questa nuova immagine di Dio che il carisma dell’unità e la spiritualità di comunione oggi donano alla Chiesa e a tutta l’umanità. Vogliamo sperare che questo nostro contributo possa risultare significativo per i nostri lettori.