Quale democrazia?
Non è stato difficile allineare, pescandoli fra Africa e Sudamerica, una quindicina di capi di Stato da aggiungere al drappello degli asiatici, e senza escludere neppure alcuni europei, tutti accusati di lesa democrazia. Lo hanno fatto di recente questo censimento, aggiornando a tutt’oggi una sorta di coccodrillo della democrazia nel mondo, non pochi commentatori di politica internazionale, concordi nella sostanza e con appena qualche distinzione nei giudizi. Certo, a vederli così, tutti schierati e schedati con tanto di curriculum, si resta quantomeno perplessi. Il disgusto non fa più parte dei sentimenti concessi a chi interpreta e giudica la politica, visto che la genesi delle loro storie ha spesso origine da sacrosanti pronunciamenti popolari. E poi, non furono anche Hitler e Stalin confermati a furor di popolo – almeno così sembrò – al vertice del potere? Il senso vero di questi resoconti è tuttavia di allarme e, qualche volta, di sgomento. Tant’è che, nella lista, c’è anche chi ci mette i Bush (a motivo delle guerre in Iraq); e chi pronostica l’iscrizione dei Clinton e della coppia Kirchner per l’Argentina. Ma si tratta di palesi forzature, al cospetto degli emblematici casi rappresentati dalla Corea del Nord con la dinastia inaugurata da Kim Il Sung, insediato dai sovietici nel 1948, cui è succeduto il figlio Kim Jong-il. Nella lista segue Cuba, dove Fidel Castro, lider máximo dal 1959, è stato rimpiazzato durante la recente malattia dal fratello Raoul. È ormai quasi quarantennale la presenza incontrastata di Gheddafi in Libia. In Siria Hafez Al Hassad è rimasto in sella dal 1970 fino al 2000 e prima di morire ha designato come successore il figlio Bashar. Per citare soltanto i più longevi, ricorderemo il presidente Omar Bongo del Gabon, al potere dal 1967; Eduardo Dos Santos in Angola è al vertice dal 1979. Pure Teodoro Mbasogo nella Guinea equatoriale ha preso il potere con un colpo di Stato nel 1979 e non l’ha mollato più; lo stesso Mubarak, in Egitto non ha avuto ricambio dal 1981; e Robert Mugabe nello Zimbabwe è al potere dal 1987. L’elenco non finisce qui, ma ci fermiamo per ricordare che in genere questi personaggi figurano come presidenti di repubbliche sedicenti democratiche; anche se alcune si potrebbero definire teocra- tiche, visto che i loro capi di Stato vengono paragonati a divinità. Converrà comunque ricordare che non esiste una forma sola di democrazia: ogni Paese democratico ne matura nel tempo una propria. Sappiamo bene che, uscendo dal colonialismo, singoli Paesi hanno importato forme democratiche troppo estranee alla cultura indigena senza aver avuto il tempo di digerirle. Nell’ipotesi più benevola molte di queste repubbliche si dovrebbero considerare monarchie. Certo, sono molteplici i parametri per giudicare una democrazia. L’argomento è assai complesso e ne riparleremo con criteri il più possibile obbiettivi. Passando alle più giovani repubbliche del firmamento ex sovietico dell’Asia centrale, quasi tutte manifestano tendenze autoritarie. Saparmurad Nijazov, da presidente del partito comunista è divenuto nel 1990 il nuovo despota del Turkmenistan col 99,5 per cento dei consensi. Nel ’99 ha avuto il mandato a vita ed ha conservato il potere fino alla morte, nel 2006. La stessa strada ha seguito in Kazakistan Nursultan Nasarbaev, sultano di nome e di fatto che, grazie alle immense ricchezze del sottosuolo, sta costruendo nel deserto una capitale faraonica dando di sé stesso l’immagine di un sovrano assoluto. Né diversa è la sorte dell’Uzbekistan, dove Islam Karimov, da presidente della repubblica socialista è succeduto a sé stesso nella nuova repubblica postcomunista. In Azerbaijan analogo percorso è stato compiuto da Heydar Alyev che, in punto di morte, ha lasciato sul proprio trono il figlio Ilham. Questa volta viene da chiedersi se settant’anni di comunismo non abbiano preparato almeno un poco queste popolazioni alla democrazia. Ma la risposta ovvia è che anche in questo caso si trattò di una forma di colonialismo russo nei confronti di popolazioni di fede islamica. Davanti ad una siffatta involuzione, ci si può domandare se la democrazia subirà la stessa sorte anche nelle altre repubbliche ex sovietiche: quelle cioè che hanno radici geografiche e storiche europee. A tutt’oggi la più compromessa appare la Bielorussia. Qui il piccolo padre è Aleksandr Lukashenko che, nel 2004, ha fatto modificare la costituzione per riservare a sé pieni poteri, e la possibilità di essere rieletto senza alcun limite di tempo. La grande incognita, in questo momento, resta comunque la Russia di Putin che, con grande determinazione, in pochi anni ha fatto uscire il suo Paese da una situazione di prostrazione economica e morale nella quale era piombato dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, conquistando una grande popolarità. Si vuole che i russi abbiano avuto sempre bisogno di un capo forte che li guidi nel bene e nel male, e ciò appare vero ancora ai giorni nostri. Oggi, chi meglio promette di adeguarsi a questo sentire popolare è Putin, che ha abilmente e spregiudicatamente condotto il Paese fuori dalla stretta economica che lo condizionava, vincendo la battaglia per l’energia e proponendosi come primo fornitore di ciò di cui l’Europa ha una necessità vitale. La Russia è di nuovo una grande potenza. Ma si direbbe che ha ancora bisogno di Putin. Davanti alle scadenze fissate dalla nuova Costituzione, che non consente una terza rielezione del presidente, ci si domanda però come potrà venire garantita una rassicurante continuità alla politica vincente del piccolo zar, che detiene le chiavi di tutti i poteri forti del Paese, ma non vuole apparire davanti all’opinione pubblica mondiale come l’affossatore di quel tanto di democrazia che la Russia sembra avere raggiunto. I prossimi mesi ci diranno se si avvererà l’ipotesi oggi più accreditata di un passaggio di Putin dalla presidenza della repubblica a quella del governo, per ritornare legittimamente, dopo una congrua parentesi, a capo dello Stato. Almeno in questo modo salverebbe la faccia. E la Russia forse l’unica possibilità di garantire continuità alla propria ripresa. Restano forti le perplessità di chi si domanda ancora una volta quando mai si vedrà nel mondo la democrazia proporsi non come una strada più comoda per raggiungere il potere, ma con la sua unica legittima finalità: il servizio. Davanti a questo panorama sconfortante, ancorché largamente incompleto, viene da rivalutare come un quasi miracolo politico ciò che l’Unione europea rappresenta nel mondo, ben al di là dei vantaggi economici che garantisce ai suoi partner, come una grande conquista del vivere civile.