Qualcuno ha detto basta
Senza che la stampa internazionale desse molto spazio alla notizia, a gennaio Brasile e Argentina hanno estinto in loro debito col Fondo monetario internazionale (Fmi). Con anticipo rispetto alle scadenze delle quote di quanto dovuto, il governo brasiliano ha pagato 15,5 miliardi di dollari Usa, mentre quello di Buenos Aires ha restituito quasi 10 miliardi. Vale la pena chiedersi perché due paesi, la cui economia soffre di problemi strutturali mai risolti, abbiano compiuto l’enorme sforzo di privarsi di 25 miliardi di dollari, attingendo alle proprie riserve finanziarie, agendo tra l’altro in perfetta coordinazione di tempi, con annunci distanti l’uno dall’altro di appena 48 ore. Infatti, va ricordato che uno degli obiettivi del governo del presidente brasiliano Inacio Lula da Silva continua ad essere il piano fame zero, il che la dice lunga sulla situazione sociale. Da parte sua, tra le grandi sfide del presidente argentino Kirchner v’è quella di diminuire la povertà nella quale vive ancora il 40 per cento dei suoi connazionali, con 5 milioni di indigenti; e di creare posti di lavoro per abbassare la disoccupazione ferma al 12 per cento, con identica percentuale di sottocupazione, in una economia dove avere un lavoro non garantisce di uscire dalla fascia di povertà. In entrambi i casi, è innegabile che si sia entrati in una fase di ripresa economica, frutto anche dell’ingresso nel mercato mondiale di un acquirente come la Cina che sta facendo incetta di prodotti agricoli, e dell’aumento dei prezzi internazionali, primo fra tutto quello del petrolio. Ciò nonostante, pur con elevati tassi di crescita, in entrambe i casi le pressanti emergenze rendono esigui i margini di manovra. Non è mancato chi abbia tacciato come frettolosa la decisione di pagare. I due paesi avrebbero potuto continuare ad estinguere presso il Fmi le quote del debito alla loro scadenza. L’operazione avrebbe evitato di spendere di colpo una somma cosí alta, senza diminuire le proprie riserve, ottenendo lo stesso risultato agli inizi del 2008. È dunque chiaro che non siamo di fronte ad una scelta economica, ma politica. Il comportamento del Brasile e dell’Argentina contiene dunque il seguente messaggio diretto al Fmi: vi paghiamo quello che dobbiamo subito, purché la facciate finita. La realtà è che con questa decisione i due governi sudamericani evitano le continue ed asfissianti pressioni alle quali sono sottomessi da anni, attraverso il monitoraggio al quale sono obbligati gli assistiti dal Fmi, dato che sempre con maggiore evidenza questo organismo sembra aver assunto il ruolo di garante degli interessi economici di poderose lobby imprenditoriali e finanziarie, quasi sempre appartenenti al Primo Mondo: lobby che hanno realizzato succosi affari attorno alla questione del debito estero (lievitato in base a tassi di interesse usurai ed a ristrutturazioni in odore di truffa) ed alle privatizzazioni dei servizi pubblici, spesso sospettate di corruzione. Accecato dalla logica del consenso di Washington trasformata in una serie di dogmi validi per tutti e dappertutto, indipendentemente dalle circostanze speciali di ogni economia, il Fmi si è trasformato in promotore di una globalizzazione senza regole che, quasi ovunque, ha arricchito e concentrato in poche mani le ricchezze disponibili. Lo ha segnalato a più riprese il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz, che dal suo posto di vicepresidente della Banca mondiale, a suo tempo, ha conosciuto da vicino il modus operandi di questi due organismi. Nel suo La globalizzazione ed i suoi oppositori, Stiglitz segnala che spesso la politica del Fmi rifletteva gli interessi e l’ideologia della comunità finanziaria occidentale , con ricette che rappresentavano una curiosa mistura di ideologia e di cattiva economia, un dogma che in certi momenti sembrava occultare altri interessi. Un atteggiamento, questo, che la crisi argentina del 2001 ha messo in evidenza. In piena emergenza economica, con una inflazione schizzata al 30 per cento in un mese, stipendi decurtati tra il 10 ed il 20 per cento, una caduta del 20 per cento del Pil, il Fondo monetario internazionale insisteva nella diminuzione della spesa statale e nell’aumento delle tariffe dei servizi pubblici fino a un 30 per cento. In tali tremende circostanze, i vertici di quello stesso organismo che fino a poco prima aveva indicato l’Argentina quale alunno modello, non solo si lavarono le mani dopo la catastrofe della quale furono corresponsabili, ma si mostrarono preoccupati soprattutto per i margini di guadagno delle aziende pubbliche privatizzate da capitali internazionali, ridotti dalla svalutazione della divisa locale. Lula e Kirchner hanno dunque compiuto un gesto che, se è discutibile sul piano dei princìpi, perché di fatto mette una pietra sulle grandi responsabilità del Fmi, è forse comprensibile su quello prammatico, dato che il 47 per cento dei potere decisionale del Fmi è in mano al G7. Un gesto dunque che rompe anche con la docilità dei precedenti governi nei confronti di un organismo che sembra aver smarrito completamente lo spirito che ne originò la nascita, nel lontano 1944. Non è cosa da poco, soprattutto in un contesto, quello latino-americano, caratterizzato da un vero e proprio asservimento agli interessi del capitalismo di stampo neoliberale, che per decenni ha fatto e disfatto governi ed economie a suo piacimento. Un asservimento di cui il tremendo peso del debito estero (solo Argentina e Brasile sono tuttora debitori di circa 450 miliardi di dollari). Grazie all’azione congiunta del duo Fmi-Banca mondiale impresari e speculatori con pochi scrupoli hanno beneficiato della flessibilizzazione del lavoro, della deregulation del sistema finanziario e dell’apertura commerciale imposti come dogma, da quel Primo Mondo che spende in sussidi alla propria produzione per 330 miliardi di dollari all’anno, quasi uno al giorno, alla faccia del libero mercato. Ma se è stato possibile il gesto politico di Lula e Kirchner, ciò dice che nel contesto sudamericano qualcosa sta cambiando. Effettivamente, una scorsa al panorama politico rivela cambi di tendenza significativi. Sempre più governi stanno orientando le loro priorità di politica economica in modo da affrontare decisamente le gravi situazioni di povertà e miseria strutturale. È inoltre evidente il progressivo allineamento, si direbbe strategico, tra Venezuela, Brasile ed Argentina che, nel corso del summit delle Americhe, tenuto nel novembre scorso, ha praticamente neutralizzato la proposta di un’Area di libero commercio delle Americhe (Alca), idea cara a Washington, ma che nelle condizioni in cui viene proposta offre vantaggi più che altro per il colosso statunitense. Recentemente il venezuelano Chávez ha ottenuto il prossimo ingresso del suo paese nel Mercosur (mercato comune tra Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay), e alla fine dell’anno hanno confermato la costruzione di un gasdotto che dal Venezuela arriverà all’Argentina attraversando il Brasile. Un investimento chiave in un area sensibile, nell’ordine dei 10 miliardi di dollari. Ma il 2005 ha segnato cambi di rotta nello stesso senso in Uruguay e in Bolivia, dove il presidente Evo Morales è il primo capo di stato di origine india. Mentre la coalizione di centrosinistra in Cile ha ricevuto una ulteriore conferma elettorale. La neoeletta presidente Michelle Bachelet ha annunciato che darà continuità a 15 anni di politiche sociali, con l’accento a una maggiore redistribuzione del reddito. La novità di questo nuovo contesto, più che nell’orientamento politico di tali governi, più o meno marcatamente di sinistra, che di per sé -sia ben chiaro – non sono garanzia di buona gestione della cosa pubblica, sta nella decisa opposizione all’andazzo neoliberale accettato finora come unica via possibile, nella ricerca di alternative al mito della mano invisibile di un mercato che a queste latitudini ha mostrato con durezza assoluta il suo volto disumano. Siamo dunque davanti a governi che, almeno nelle intenzioni, si annunciano disposti a fare della sensibilità sociale e dell’equità il cavallo di battaglia della propria gestione. Il che non è poco, se pensiamo che in 15 anni il Cile ha ridotto la povertà dal 40 al 18 per cento, che anche il Brasile presenta buoni risultati nella lotta alla povertà e all’emarginazione; e che l’Argentina ha ridotto questo tasso dal 55 al 40 per cento. Tale cambio di tendenza, che se ben osservato è tutt’altro che omogeneo, non è privo di sfide e di punti deboli. A cominciare dalla necessità di consolidare le locali istituzioni, da troppo tempo deficitarie di una esperienza autenticamente democratica, per arrivare a suscitare un processo di integrazione regionale che vada ben al di là degli obiettivi commerciali e penetri nelle profonde radici culturali comuni. L’Europa in questo potrebbe svolgere un ruolo importante, soprattutto se saprà comprendere la necessità di far nascere nuovi interlocutori sullo scacchiere internazionale dove è necessario recuperare il multilateralismo. Se son rose, fioriranno. Nel frattempo si deve pur riconoscere che qualcuno ha cominciato a dire: basta.