Qualcosa di buono dall’Est?
Come ve la cavate con la geografia europea? E con quella dell’Unione? Sicuramente non fareste fatica a indicare dove si trova la Spagna, oppure la Danimarca, e persino il Belgio. Ma proviamo adesso – da convinti europeisti quali siamo noi italiani – a collocare sulla carta qualche paese tra i dieci nuovi entrati il 1° maggio scorso. La Lituania, ad esempio, si trova a nord o a sud dell’Estonia? E l’Ungheria confina o no con la Polonia? State dubitando? Tranquilli, siete in nutrita compagnia. Risulta infatti quanto mai limitata la conoscenza delle nazioni immediatamente attigue all’Europa occidentale. A proposito, l’Estonia è più a nord della Lituania e tra loro si trova la Lettonia, mentre l’Ungheria non ha confini comuni con la Polonia. In effetti, c’è scarsa dimestichezza con questi nuovi inquilini dell’Ue, tanto che all’Est Europa rimane appiccicata l’etichetta – complici i mezzi d’informazione – di ex paesi comunisti. Ben poco conosciamo della loro storia millenaria, delle loro culture, dei patrimoni artistici, delle loro lingue e delle loro minoranze. Non solo. Tendiamo anche a proiettare all’Est l’identificazione tra paese, nazionalità e cultura (ovvero: gli abitanti della Francia sono francesi di lingua francese), che ancora sussiste nell’immaginario collettivo dell’occidente europeo. Applicare tuttavia questo criterio al multietnico mosaico degli stati orientali è invece fuorviante, perché sono presenti consistenti minoranze etniche, linguistiche e religiose. Si intrecciano – chiarisce lo studioso Alessio D’Angelo – antiche suddivisioni, come quella tra popoli slavi e non, e quella religiosa tra occidentali (latini) e orientali (bizantini). Per cui, cechi, polacchi, sloveni, slovacchi e croati sono sì slavi, ma non bizantini, mentre albanesi e rumeni non sono slavi ma certamente restano orientali. L’ingresso dei nuovi paesi, perciò, ha consentito non solo la creazione di un’Unione europea che, per popolazione, diventa il terzo colosso mondiale, dopo Cina e India, ma ha pure posto fine, anche dal punto di vista istituzionale, alla divi- Addio frontiere. Scomparse le dogane sione tra Europa dell’Ovest e Europa del’Est. Ma qualcosa di buono può venire dai paesi di nuova acquisizione?, si domandano certuni con un filo di voce per non passare da xenofobi. È fortemente sbilanciato – afferma Franco Pittau, esperto d’immigrazione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro – l’unilateralismo con cui si inquadrano i nuovi stati membri, talvolta con una sorta di rancore per il loro passato comunista e altre volte con un atteggiamento di superiorità per il fatto che beneficiano di una serie di aiuti a sostegno dei loro deboli sistemi economici e giuridici . L’atteggiamento corretto dovrebbe invece suggerire di compiacersi per il fatto che questi paesi hanno superato finalmente l’esperienza totalitaria per abbracciare l’ottica democratica . Perché non va dimenticato che, prosegue Pittau – tra i curatori della ricerca Europa. Allargamento a Est e immigrazione (Ed. Idos) -, anche nelle precedenti fasi del processo d’integrazione europea le aree più sfavorite degli stati membri sono state sorrette da appositi fondi e che, comunque,il livello di reddito attuale non è l’unico criterio da valutare in un processo politico ed economico di così grande portata. I discorsi ufficiali sono improntati all’ottimismo, ma permane nell’Europa occidentale un grande timori: l’invasione da Est (addirittura ipotizzata in qualche milione) di persone in cerca di una migliore qualità della vita. Ecco perché, in vista dell’allargamento, sono stati varati gli accordi transitori in materia di libera circolazione, che prevedono una moratoria, ad eccezione di Cipro, Malta e Slovenia. Per i primi due anni, infatti, restano in vigore le norme (restrittive) sull’immigrazione vigenti nei singolo paesi dell’Ue anche per i cittadini dei nuovi stati membri. In caso di difficoltà sul mercato interno del lavoro, ci potrà essere una proroga di altri tre anni estensibile ad altri due. Insomma, solo dopo sette anni nessun stato sarà più autorizzato a richiedere il permesso di lavoro e a dilazionare ulteriormente la concessione della libertà di circolazione. In un primo tempo, alcuni stati (Gran Bretagna, Irlanda, Svezia e Paesi Bassi) avevano dichiarato che non si sarebbero avvalsi del periodo di transizione. Poi, però, con l’approssimarsi del 1° maggio, sono tornati sui propri passi. La ragione è semplice: prima si erano pronunciati in senso liberale, dopo hanno temuto di trovarsi sottoposti a una maggiore pressione migratoria. La carenza di fiducia dimostrata nei confronti dei nuovi paesi – scrive Ferruccio Pastore, vice direttore del Centro studi di politica internazionale – rischia di essere contagiosa e provocare ritorsioni. I governi ungherese e polacco hanno indicato che potrebbero non aprire i propri mercati ai cittadini dei 15 paesi dell’Ue. Ma potrebbe innescare anche una spirale di chiusure reciproche anche tra i paesi dell’Europa centrale e orientale, con effetti deleteri sulla stabilità e sul dinamismo economico complessivi della regione. I timori di forti flussi migratori sono comprensibili ma non si sa quanto fondati. Queste preoccupazioni contrastano – precisa Pastore – sia con l’esperienza dei precedenti allargamenti, sia con la maggior parte degli studi recenti sul potenziale emigratorio dei nuovi paesi membri nel periodo immediatamente successivo all’ingresso nell’Unione. La Grecia nel 1981, Spagna e Portogallo nell’86, ad esempio, prossimi all’adesione, preoccuparono i paesi comunitari. Fu perciò previsto un periodo di transizione compreso tra i sette e i dieci anni. Poco dopo fu drasticamente ridotto, perché il numero di chi rientrava nella penisola iberica risultò superiore a quello di chi la lasciava. Inoltre, le stime più recenti sui possibili flussi migratori da Est verso Ovest invitano alla moderazione. Uno studio congiunto della Commissione europea e della Fondazione europea di Dublino indica in 220 mila persone all’anno l’entità della prevista migrazione. Secondo la ricerca, la molla per decidere di emigrare non è la disoccupazione ma il grado di preparazione, cosicché dovremmo aspettarci manodopera molto qualificata, che dovrebbe, a breve termine, migliorare le proprie condizioni finanziarie e, a lungo termine, contribuire allo sviluppo socio-economico del nuovo paese favorendo anche una ripresa della natalità. I paesi maggiormente coinvolti saranno quelli geograficamente più vicini, come Austria, Germania e, in parte, anche l’Italia. Come difendersi? Nulla da temere, invece. Con l’invecchiamento della popolazione di questi tre paesi, l’arrivo di immigrati offrirà apporti fondamentali. Nella sola Germania, secondo uno studio recente, per mantenere stabile la situazione della forza lavoro – e quindi non compromettere il sistema previdenziale – occorrerebbero 500 mila lavoratori all’anno. Per il momento, comunque, niente libera circolazione delle persone. È stata scelta l’ipotesi del rinvio. Decisione estremamente funzionale a preparare l’opinione pubblica nazionale – chiarisce Ugo Melchionda, funzionario dell’Organizzazione internazionale per la migrazione -, ma anche a evitare che i partiti di destra strumentalizzino la questione paventando flussi di massa e a promuovere nel frattempo una più profonda integrazione economica dei nuovi paesi dell’Unione . In Italia è attualmente in vigore il sistema delle quote per l’ingresso di immigrati da qualunque paese, ma la programmazione ufficiale dei flussi (per il 2004, 60 mila stagionali e 20.500 a tempo indeterminato) sottovaluta le effettive necessità. L’Unioncamere, l’organismo che raccorda le Camere di commercio, aveva ipotizzato già per lo scorso anno un fabbisogno di 224 mila persone per il settore del lavoro dipendente. Una quota destinata a salire con il tempo a motivo della diminuzione di lavoratori italiani tra i 19 e i 40 anni e in caso di ripresa economica. Al momento, gli immigrati presenti in Italia e provenienti dai nuovi paesi dell’Unione sono concentrati in alcune regioni: in Lombardia, cechi, estoni, lettoni, lituani e ungheresi; nel Lazio, polacchi; nel Trentino Alto Adige, slovacchi; in Friuli Venezia Giulia, sloveni. La componente più numerosa è quella dei polacchi (69 mila). Per almeno i prossimi due anni il nostro governo ha scelto di limitare la libertà di circolazione per l’accesso al lavoro dei cittadini. Un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, in data 20 aprile 2004, ha stabilito comunque una quota di ingressi (20 mila per l’anno in corso) riservata ai cittadini dei sette stati di nuova adesione. Non sono invece previste restrizioni per chi voglia dar vita ad attività autonome e professionali, purché sussistano i requisiti richiesti. L’ampliamento dell’Europa e l’applicazione delle norme comunitarie, pur con le restrizioni iniziali adottate, costituiscono comunque un passo avanti di grande importanza. Gli immigrati dei nuovi paesi membri dell’Unione, ad esempio, non possono essere più considerati stranieri, secondo la terminologia tecnica in materia d’immigrazione, ma cittadini comunitari. E non solo. Le normative legate all’Unione a Venticinque – sottolinea Paola Scevi, docente di diritto delle migrazioni all’università Cattolica di Piacenza – hanno portato una ventata nuova nella disciplina delle migrazioni e costituiscono una leva non indifferente per prestare più attenzione alla mobilità umana e alla sua tutela. Infatti, l’arma delle espulsioni è ormai spuntata, perché il soggiorno in un altro paese dell’Unione costituisce un diritto dei nuovi lavoratori comunitari. Commenta perciò: Il grande evento inaugurato con l’ingresso di dieci nuovi paesi ricorda utilmente che è preferibile impostare i rapporti sulla collaborazione e sull’utilità reciproca. IL DIO DEGLI IMMIGRATI Più cristiani che musulmani.Tra i 20 milioni di immigrati presenti complessivamente nell’Unione europea, i seguaci di Gesù sono il 44,4 per cento, i fedeli dell’Islam il 33,4, gli appartenenti a religioni orientali il 4,3.Tra gli immigrati, la concentrazione dei cristiani, che nel complesso sono 8,7 milioni, è massima nel Lussemburgo (82,9 per cento) e minima in Austria (26,4), mentre i musulmani si trovanmo soprattutto in Germania (2,8 milioni), Francia (1,5 milioni), Italia (824 mila) e Gran Bretagna (400 mila). In Italia, gli immigrati sono 2.547.736. Nell’anno in corso, per la prima volta, i cristiani sono diventati la maggioranza assoluta, cioè 1.281.000. Il risultato è dovuto ai flussi di persone provenienti dall’Est Europa e in particolare dalla Romania, cosicché è prevedibile per il futuro un incremento dei cristiani e, in particolare, di ortodossi. Da qui la necessità di un’opportuna accoglienza dei cattolici nei confronti dei fratelli dell’Ortodossia. Al momento, pertanto, i cristiani immigrati sono ripartiti in cattolici (651 mila), ortodossi (470 mila), protestanti( 114 mila). Ogni 10 cristiani, perciò, 5 sono cattolici, 4 ortodossi e 1 protestante o di altre chiese. Riguardo ai musulmani, si va assistendo ad una forte diversificazione geografica, mentre permane nettamente prevalente la componente sunnita rispetto a quella sciita. Alla componente nordafricana (48 per cento) si affianca quella dell’Est Europa (26 per cento), seguita dall’Africa occidentale (11) e dal Subcontinente indiano (10).Va perciò sottolineato che 1 musulmano su 4 viene dall’Europa orientale, dove si fa riferimento prevalente al modello islamico turco. ARVEJEVIC “Emigrati e felici? Dubito Esistono degli emigrati felici?”, si chiede Predrag Marvejevic, nel volume Europa. Allargamento a Est e immigrazione. Nato in Bosnia da madre croata e padre russo, è docente di slavistica all’università La Sapienza di Roma, dopo aver insegnato a Zagabria e alla Sorbona, Parigi. Io non ne ho mai conosciuti. Ma ho conosciuto molte persone felici di emigrare. Ecco un paradosso dell’emigrazione. Gli emigrati che vivono qui, accanto a noi, sono simili a tutti gli altri sparsi nel mondo: spesso sono soli, esclusi o divisi. Il paese che li ha accolti non è la loro patria e quello che hanno lasciato ha smesso di esserlo, salvo che nel ricordo. E talora essi vivono in questo ricordo. Cessano di far parte della cultura anche più elementare da cui traggono origine e non riescono, se non eccezionalmente, a integrarsi in quella del nuovo contesto.