Qualcosa cambia per i rohingya?/2

Primi scricchiolii nell’impunità pretesa dai militari per un ritorno del Paese alla normalità. Forse si apre uno spiraglio per un ritorno dei rohingya nelle loro terre e per una convivenza pacifica tra le 135 etnie del Paese. Pubblichiamo la seconda ed ultima parte dell'approfondimento del nostro corrispondente

Agli inizi degli anni ’90, a Bangkok, mi capitò tra le mani un volume di grosso spessore redatto dalle Nazioni Unite: aveva circa 200 pagine. Era parte di un’inchiesta ufficiale che raccoglieva testimonianze, foto, interviste, nomi e luoghi delle violenze e dei crimini perpetuati dalle forze armate del Myanmar contro la popolazione inerme. Sfogliai il libro e rimasi di ghiaccio per l’accuratezza delle descrizioni, per i nomi riportati e per la descrizione del rango degli ufficiali coinvolti, per i nomi dei reggimenti: materiale sufficiente per portare i responsabili davanti ad un tribunale per crimini di guerra.

Di quei militari, ricordo il noto primo ministro, gen. Tang Shwe, che dal 1992 al 2011 guidò sia il governo del Myanmar che le forze armate del Paese: famoso sia per il modo spietato di trattare gli avversari, ma anche per la sua leggendaria ricchezza, in un Paese che era tra i più poveri del mondo. Soprattutto i capi militari, tutti nelle liste “nere” delle organizzazioni internazionali, non potevano, praticamente, più muoversi dal Paese e i loro interessi all’estero erano colpiti da embargo, i loro conti congelati negli Stati Uniti e in Europa.

Solo Singapore e Bangkok rimanevano i porti franchi dove far arrivare il denaro, davvero tanto. Il giornale The Guardian ricorda che nel 2006, per il matrimonio (arrangiato) di una delle figlie, Thandar Shwe, col maggiore dell’esercito Zw Phyo Win, il gen. Tang Shwe fu capace di organizzare una celebrazione tradizionale birmana (su Youtube ancora oggi è possibile visionare il video) con un lusso da capogiro: la nuova abitazione per gli sposi era costata 50 milioni di dollari, erano stati distribuiti 2 chilogrammi di diamanti e alcune decine di milioni di dollari in regali vari.

Nel 2009 il generale stava per comprare uno dei club calcistici più famosi del mondo, il Manchester United, per un miliardo di dollari, in contanti: il club calcistico sarebbe stato il regalo al suo nipotino favorito, Nay Shwe Thway Aung. Tang Shwe dovette però abbandonare la sua impresa, perché questo investimento sarebbe arrivato a ridosso della morte di 150 mila persone per il Ciclone Nargis, che aveva colpito la zona del delta del fiume Irrawaddy. Le critiche nazionali ed internazionali che seguirono quel disastro furono tante: alcune navi militari straniere che si trovavano nella zona avevano offerto assistenza, cibo e rifugio per la gente. Ma tale offerta venne rifiutata dai militari, che non volevano perdere la faccia per la loro incapacità di aiutare la popolazione. I 150 mila morti furono inevitabili, a quel punto, ed è ormai storia: rimane uno dei crimini commessi dalla giunta, che dal 1948, in pratica, ha governato il Paese fino ad oggi.

Ma ormai si stava negoziando l’uscita del Myanmar sulla scena internazionale: il processo diplomatico ha chiamato in causa le potenze internazionali, impazienti di metter le mani su un Paese ricco di risorse naturali. Ma si doveva trovare una soluzione che andasse bene per tutti, soprattutto per i militari che volevano l’impunità. Il compromesso politico internazionale raggiunto nel 2012 tra tutte le forze politiche birmane e internazionali, con gli Usa come principali sponsor, ha portato alla libertà di Aung San Suu Kyi e alle elezioni; ma, come contropartita, anche all’impunità di tutti i militari e alla promessa di non essere mai giudicati per cose successe durante i precedenti 70 anni di regime.

Il partito del Fronte Democratico vinse le elezioni del 1° aprile 2012 con una vittoria schiacciante. Ma il Parlamento del Myanmar rimase in mano, in pratica, ai militari, che possono nominare una buona parte dei loro rappresentati e assicurarsi la maggioranza assoluta: e questo è sancito nella Costituzione e per un lungo futuro.

In un quadro del genere, l’ammissione da parte dell’esercito dell’uccisione di 10 civili rohingya, fatta il 13 gennaio scorso, è alquanto importante e nuova. Anche tutta la comunità internazionale, col Giappone in primis, ha positivamente reagito a questa prima confessione, anche se, come è stato commentato, «è solo la piccola punta di un immenso iceberg». Aung San Suu Kyi, la leader (non di fatto) ma ufficiale del Myanmar, ha reagito positivamente a questa dichiarazione, dopo che per mesi aveva negato ogni possibile “pulizia etnica” da parte del Tatmadaw Kyi, l’esercito di Naypyidaw. Ricordiamo solo alcune cifre: si parla di un totale di circa 9 mila rohingya uccisi (di cui il 71,7% in azioni violente: di questa cifra fanno parte 730 bambini al di sotto dei 5 anni) e di 650 mila profughi in Bangladesh, che sommati ai 200 mila che si sono accumulati prima dell’ottobre 2016, fanno un totale di quasi 900 mila rifugiati, se consideriamo anche i 6.500 rohingya accampati nella “terra di nessuno”, al confine tra il Bangladesh ed il Myanmar.

Dopo 70 anni di guerra e di impunità, come si è potuti arrivare ad un tale giro di boa da parte dei militari del Myanmar? Tra le possibili spiegazioni, tra cui una pressione mediatica internazionale che esige ormai spiegazioni credibili e responsabili, con nomi e cognomi, va ricordato – come fa qualche analista della regione – l’incontro del papa nello scorso novembre col gen. Min Aung Hlaing accompagnato dai luogotenenti gen. Tun Tun Naung, Than Tun Oo e Soe Htut e dal col. Aung Zaw Lin. Una visita importante, quasi misteriosa, di cui papa Francesco ha poi ribadito solo che «il messaggio è passato». La notizia di questi giorni, che cioè 6 soldati sono stati condannati a 10 anni di prigione e di lavori forzati per aver ucciso 3 civili kachin (una delle etnie che sono attualmente in conflitto col governo del Myanmar, scontro che ha causato 100 mila sfollati) è un ulteriore passo in avanti verso quella che potrebbe essere davvero un’alba nuova per il Myanmar: la fine dell’indiscriminata impunità dei colpevoli.

Si sta ora preparando il rientro dei profughi rohingya in Myanmar dal Bangladesh, un processo sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Anche questo in seguito alle continue pressioni internazionali, che vogliono risolvere il problema, venuto alla ribalta in modo chiaro con la visita di papa Francesco, col suo saluto ai 18 profughi, e col suo urlo a chi li voleva giù dal palco: «Rispetto, rispetto». Il Bangladesh non è in grado di continuare a ospitare quasi 1 milione di profughi. È giusto che ritornino alle loro terre: ma cosa troveranno? Come saranno le loro condizioni, ora che hanno perso praticamente tutto ed i loro villaggi sono stati rasi al suolo?

I militari dell’esercito del Myanmar, sotto la pressione internazionale e le pressioni diplomatiche, non ultime quelle del Vaticano che, come dicono gli esperti, «non molla la questione rohingya per nessuna ragione al mondo», riuscirà a proteggere la popolazione dalle violenze delle bande di buddhisti che vedono nei rohingya un pericolo per la purezza del Myanmar, terra del Buddha?

Sembra che davvero qualcosa stia cambiando per i rohingya dopo che i riflettori della comunità internazionale sono stati puntati su di loro in novembre. Ma anche per le altre etnie del Myanmar, 135, che meritano una vita degna d’essere vissuta.

La prima parte dell’articolo si può leggere qui.

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