Come può morire una democrazia
La notizia è stata data dal quotidiano inglese Indipendent: l’East Coast Main Line, linea ferroviaria che collega Newcastle a Londra, ritorna in mano pubblica dopo il totale fallimento della privatizzazione.
Così la stazione di King’s Cross – quella da cui parte il treno di Harry Potter – dopo oltre dieci anni di travagliati tentativi di operatori privati rivede i treni di sua maestà. Ed anche il vento dell’opinione pubblica sembra cambiato dopo gli anni ruggenti del thatcherismo: secondo i sondaggi, due britannici su tre vogliono ri-nazionalizzare i servizi ferroviari.
Non possiamo dire se questo episodio rappresenti un’inversione di tendenza. Di certo ha un grande valore simbolico perché proprio dal Regno Unito è partita negli anni ’80 del secolo scorso un’onda lunga di deregulation e privatizzazioni che, con luci ed ombre, ha investito diversi Paesi del vecchio continente e non solo.
Alla privatizzazione dei servizi pubblici si è accompagnata una narrazione ideologica che ha portato nel tempo ad una sorta di superiorità morale di tutto ciò che è “privato” – fosse anche “civile” – rispetto a ciò che è “pubblico”. I dati di fatto ci dicono che stato e mercato hanno i loro fallimenti, che la società civile non è tout court il luogo della virtù, così come il palazzo non è sempre quello del vizio.
Questo approccio è andato ben al di là del desiderio iniziale di rendere efficienti i servizi pubblici, come pure la macchina amministrativa statale: si è di fatto realizzata una colonizzazione culturale degli spazi pubblici immettendo logiche particolaristiche, che contraddicono lo stesso spirito privatistico improntato ad efficienza e competenza, scalzando l’originaria concezione di “pubblico” e di “privato”. Dal governo – sintesi di pesi e contrappesi che costringono a contemperare interessi diversi – siamo passati alla governance – sistema completamente esterno ed esente dal controllo democratico.
Ne parla ampiamente l’ultimo libro (Governance. Il management totalitario – Neri Pozza) del filosofo canadese Alain Denault, che definisce il fenomeno un «colpo di stato concettuale». Secondo l’autore il rischio, in nome della governance, è quello di scivolare pericolosamente verso la morte della politica. Da principi e visioni dichiarati, condivisi e discussi pubblicamente ci si concentra su soluzioni pre-fabbricate e volatili, attorno alle quali costruire il consenso temporaneo: è un sistema che assomiglia alla democrazia, ma non necessariamente coincide con essa.
Ed anche nel nostro Paese da qualche anno si usano strumenti e parole estranei al lessico di un bene pubblico quale dovrebbe essere la democrazia. Sono apparsi nel tempo “partiti personali” e rappresentanze politiche di proprietà di società commerciali (tipici strumenti di attività produttive private).
Questi sistemi di rappresentanza privatizzati esprimono programmi e promesse elettorali in forme altrettanto privatistiche: dal “contratto con gli italiani” all’attuale “contratto di governo”, i cittadini si trovano ad aderire ad accordi particolari e parziali – per quanto senza conseguenze giuridiche – che esulano da quel contratto sociale che dovrebbe essere la base minima e comune di un senso di cittadinanza e di ogni forma di partecipazione.
Come queste prassi si accordino con la Costituzione vigente è tema ancora poco dibattuto ed esplorato. Forse perché dopo la sbornia privatizzatrice occorre una seria riflessione – pubblica e condivisa – sui confini della democrazia, su quali ambiti di vita vogliamo gestire privatamente e quelli che vogliamo gestire pubblicamente. Si tratti di un treno o di un partito politico o di un progetto Paese.