Puntare sulle vittime per sconfiggere le mafie

Presentato a Roma il XIII rapporto Le mani della criminalità sulle imprese. Un fenomeno non nuovo, ma che assume forme insospettabili nella crisi attuale
racket

Non è l’Enel, con i suoi 4,4 miliardi di euro di utili; nemmeno la Telecom, con 3,21, o la Fiat, con i suoi “miseri” 442 milioni di euro. La più grande azienda italiana è quella che sin dal 2006 l’associazione Sos Impresa ha denominato “Mafia Spa”, con i suoi 104 miliardi di euro di utili. Di questi, ha ricordato il presidente Lino Busà, ben 65 sono di liquidità: un patrimonio che, in tempi di credit cruch, «fa gola all’imprenditoria e alla finanza “deviata”, che si mette a disposizione della criminalità, facendo cadere il confine tra legale e criminale». È questo il principale elemento di preoccupazione che emerge dal tredicesimo rapporto annuale Le mani della criminalità sulle imprese, presentato a Roma il 10 gennaio. Ad elaborarlo è l’associazione Sos Impresa, nata nel 1991a Palermo su iniziativa della Confesercenti dopo l’omicidio di Libero Grassi, per offrire un sostegno agli imprenditori che decidono non tacere.

 

Racket e usura rimangono le attività più gettonate dalla criminalità organizzata: nel rapporto si stima che colpiscano 360 mila commercianti in totale, per un costo di oltre 25 miliardi di euro. A fare le spese di questi illeciti, ha sottolineato il presidente della Confesercenti Marco Venturi, «sono soprattutto le piccole e medie imprese: circa cento dei 140 miliardi del fatturato delle mafie provengono infatti dalle pmi, che subiscono circa 1300 reati al giorno». Ma anche l’edilizia, l’agromafia, i trasporti, la sanità e molti altri settori contribuiscono in maniera notevole al giro d’affari totale, stimato in 137 miliardi di euro. Giro d’affari che non si limita alle tradizionali regioni del meridione: se la più coinvolta dal rimane la Sicilia – dove si stima che circa il 70 per cento dei commercianti sia costretto a pagare il pizzo – nemmeno il nord è esente dalle infiltrazioni mafiose. «Già vent’anni fa – ha infatti ricordato Maria Grazia Trotti, dell’associazione Vigevano Libera – abbiamo denunciato episodi di estorsione in Lombardia, ma soltanto da poco se ne parla. In sostanza, li abbiamo lasciati fare per due decenni».

 

Come agire, dunque, di fronte a un quadro che rimane sconfortante nonostante i progressi compiuti nella lotta alle mafie? L’indicazione principale, emersa soprattutto grazie alle testimonianze di alcuni imprenditori vittime di racket e usura, è quella della tutela di chi denuncia: tutti hanno infatti lamentato la lentezza delle pratiche, l’emarginazione sociale e negli affari – clienti che di colpo non si rivolgono più a chi si è sottratto al racket –, ma soprattutto uno Stato che a volte diventa un nemico invece che un alleato, garantendo i risarcimenti e i sostegni necessari ad evitare il fallimento dell’azienda soltanto quando ormai è troppo tardi. Si capisce dunque come mai, secondo i dati del rapporto, soltanto un imprenditore su mille sporga denuncia. La via quindi, ha sottolineato Busà, è quella di «investire sulle vittime, sul loro reinserimento nella società, pensando ad esempio a vie preferenziali nell’assegnazione di appalti e forniture pubbliche, così che possano rimanere sul territorio e servire da esempio anche ad altre imprese». Si tratta quindi, come ha notato il presidente della Rete per la legalità Lorenzo Diana, di «rendere la denuncia una convenienza, non un problema».

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