Puntare al bene comune
La rinuncia agli interessi particolari
una scelta vincente.
È nella natura dell’uomo voler vincere piuttosto che perdere, affermare sé stesso anziché mortificarsi. La frase di Gesù, riportata nel Vangelo di Matteo, sovverte questa visione, proponendo un ossimoro: una prospettiva in cui il “saper perdere” si rivela “vincente”. Il commento che ne fa Chiara Lubich chiarisce che si tratta di una scelta che tutti, prima o poi, siamo chiamati a compiere, fra due antitetiche concezioni della vita da cui discendono atteggiamenti divergenti: dare valore assoluto o prioritario «alla nostra indipendenza egoistica», «fare di sé stessi l’ideale della vita», oppure avere il coraggio di saperla sacrificare questa nostra vita, per amore degli altri, in modo tale – dice Chiara – da aver magari «perso noi stessi» ma «trovato la vita», quella vera. Ci chiediamo se sia possibile tentarne una applicazione anche sul versante della vita politica.
Se consideriamo che il fine dell’agire politico è quello del perseguimento dell’«interesse generale» (che rinvia al pensiero di Rousseau e di Hume, cioè al razionalismo del Settecento) ovvero del «bene comune» (concetto tipico del pensiero cattolico, mutuato dalla scolastica e basato sul solidarismo), il senso autentico della vita politica dovrebbe essere quello di un disinteressato impegno civile nel segno di una weberiana «etica della responsabilità» sostanziata di amore sociale.
Se oggi la politica italiana funziona così male, forse è proprio perché manca una visione d’insieme, il senso di un interesse generale che trascenda gli interessi particolari (fra i quali, sovente, quelli che prevalgono, sono quelli dei più forti). Per definizione, il bene comune include invece la responsabilità non solo nei riguardi dei nostri vicini ma anche verso i lontani, a partire dai soggetti più deboli; chiede di pensare ai nostri contemporanei ma anche alle generazioni future. In quest’ottica, secondo Hanna Arendt, «il valore dell’uomo viene giudicato dal grado in cui egli agisce contro il proprio interesse e contro la propria volontà», ovvero dal grado in cui egli si mostra disponibile a perdere la propria visione parziale, a rinunciare a qualche beneficio o vantaggio per sé stesso o per la propria parte politica, in favore di una visione più generale.
Se la misura estrema della disponibilità a “perdere” è quella della propria vita, in un confronto politico aperto al dialogo e rispettoso dell’avversario non dovrebbero esserci di ostacolo le nostre idee, da offrire sull’altare del bene pubblico, cui ciascuno concorre sacrificando un po’ di sé stesso.