Pubblicità e azzardo, facciamo chiarezza

Accuse di moralismo alla norma del Decreto Dignità che introduce il divieto di pubblicità e sponsorizzazioni dell’azzardo. I reali interessi in gioco.

«Evviva l’esercito della salvezza!» ironizza il noto conduttore di radio radicale Massimo Bordin a commento del parere di Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, che nel cosiddetto Decreto Dignità ravvisa qualcosa di sinistra, intesa come giustizia sociale, prevalentemente nel divieto assoluto che si vuole imporre alla pubblicità dell’azzardo. Anche il senatore Bruno Tabacci, esponente di estrazione cattolica eletto grazie all’alleanza elettorale con Emma Bonino, ha detto, ad esempio, che la norma è solo moralismo. Eppure, a partire dai commenti dei vertici di Confindustria si comprende che la semplice novità andrà ad incidere sugli interessi delle grandi società del settore, che non potranno più far leva sui mezzi di comunicazione in termini di entrate pubblicitarie. Questione di soldi e di affari, nonché di libertà di informazione, e non espressione di bigottismo moralista.

L’intera questione dell’azzardo è ancora pervasa da un grande equivoco, spesso condiviso anche da coloro che si dicono contro il “gioco” d’azzardo e credono che il tutto si esaurisca con l’adozione di un blando regolamento comunale, diretto a limitare il danno, ma certo non idoneo, da solo, ad affrontare le radici del sistema che risiedono sulla concessione dell’intero settore alle società commerciali che necessitano della pubblicità per far crescere un consumo senza fine. Sono oltre 102 i miliardi di euro entrati nel vortice dei consumi nel 2017 per produrre alla fine 10 miliardi di entrate per le casse dello Stato e poco più per le società private che esercitano l’attività in concessione dallo Stato. Ma a quale costo?

Come dice l’economista Leonardo Becchetti, «i miliardi di entrate fiscali dall’azzardo sono controbilanciati dal 40% delle somme giocate che vanno in fumo e non si traducono in consumi con perdita di gettito fiscale, dai costi della dipendenza da azzardo, dalla perdita di produttività delle persone che finiscono nel vortice del gioco, dalla perdita di investimento in capitale umano, di beni relazionali e di senso della vita di chi ne resta invischiato». Nella relazione alla legge il deputato 5stelle Francesco Silvestri ha citato lo studio cardine del 2013 elaborato dal sociologo Maurizio Fiasco in base al quale «Ogni euro in azzardo è un euro in meno al commercio ed all’indotto industriale produttivo sano, tanto che a fronte di un totale di spesa in azzardo di 87 miliardi (nel 2013, ndr) si calcolava che 20 miliardi venissero bruciati dall’economia reale, con una perdita di almeno 120mila posti di lavoro tra commercio e indotto industriale».

Numeri e analisi che cozzano contro ogni giudizio banalizzante che parla indebitamente di proibizionismo e libertà di impresa. È, infatti, difficile, oggi, che la raccolta complessiva del settore ha sfondato il tetto dei 100 miliardi di euro, impostare correttamente una vera analisi della questione senza essere trascinati a parlare di “ludopatie” e dei soliti “casi pietosi” dei “dipendenti patologici del gioco”. Una vera e propria trappola semantica dove si usano termini impropri (il “gioco”, il “ludo”) quando si parla di azzardo.

Il senso di quanto sta avvenendo lo ha colto lo storico Tony Judt in “Novecento”, libro conversazione, uscito postumo nel 2012, con Timothy Schneider. La diffusione legalizzata e incentivata dell’azzardo è «un sistema di prelievo fiscale indiretto, regressivo e selettivo. Fondamentalmente si incoraggiano i poveri a spendere denaro nella speranza di raggiungere la ricchezza, mentre i ricchi, anche se dovessero scegliere di spendere la stessa somma in denaro, non ne sentirebbero la mancanza». Judt riconosce che «i divieti assoluti possono avere effetti perversi», ma osserva che «una cosa è riconoscere l’imperfezione umana, tutt’altra cosa è sfruttarla impietosamente come sostituto delle politiche sociali».

Ma alla fine quel denaro che arriva al fisco entra nel calderone di un bilancio pubblico in perenne difficoltà tra parametri di austerità e il peso di un debito che appare inestinguibile, mentre i grandi gruppi finanziari possono decidere dove spostare i loro capitali alla ricerca del maggior profitto.

E se colpiamo l’azzardo “legale” apriamo davvero le porte alle mafie, come ripete ancora qualcuno? La cosiddetta legalizzazione dell’azzardo, con una diffusa incentivazione, non ha affatto espulso il malaffare, come illustra il dossier “Gioco sporco, sporco gioco. L’azzardo secondo le mafie“, promosso dal Coordinamento nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) e curato da Filippo Torrigiani, consulente della Commissione parlamentare antimafia. «Per troppo tempo, infatti, si era erroneamente creduto che se lo Stato avesse ampliato, controllato e gestito l’offerta del gioco lecito, si sarebbe contrastata la presenza dell’illegalità, sino a rendere il mercato del gioco improduttivo per la stessa. Il corso degli eventi, invece – si legge nel testo – ha sancito ben altro. I tentacoli dell’illegalità prosperano benissimo su un binario “parallelo” e con un giro di affari difficilmente quantificabile; la realtà incontrovertibile evidenzia come, a fronte di una maggiore offerta del “gioco legale”, sia più semplice per i clan malavitosi trarre profitti attraverso pratiche di usura, riciclaggio, estorsione, imposizione».

 

 

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