Psicologo fra i detenuti
Come psicologo che da anni dedica una parte del suo tempo libero ai reclusi di un carcere romano, Adriano ha un contatto ravvicinato con l’oscuro mondo della sofferenza. Senz’altro la professionalità ha un ruolo importante nel determinare l’efficacia del suo intervento, ma qui entra in gioco qualcos’altro: è una sensibilità particolare acquisita attraverso logoranti traversie psicologiche personali. È accaduto in seguito ad un training psicoanalitico per superare qualche conflitto e rinforzare l’io. Condizionato dagli schemi della mia analisi, ho concluso che il concetto di Dio andava considerato come il residuato infantile di rapporti paterni non ben superati. Sono andato avanti oltre un ventennio senza questo riferimento essenziale, sperimentando a mie spese come la decisione di rigettare Dio per cercare chissà quale sostituto altrove sia la pazzia più deleteria per la psiche umana. A causa di questo mio smarrimento, sono arrivato a sentirmi peggio dei detenuti ai quali cercavo di rendermi utile… Con la luce di adesso, infatti, oso affermare che nessun tipo di reato stravolge tanto la natura umana quanto il rifiuto di Dio, soprattutto una volta che lo si è conosciuto. In effetti Adriano – questa la sua testimonianza – in gioventù aveva trovato nella spiritualità dei Focolari un aiuto per la propria vita cristiana. Quelle radici non erano andate perse. E finalmente, circa dieci anni or sono, la svolta: Sono arrivato a ricredermi, persuaso dalle ragioni misteriose e soavi della misericordia. Ora sapevo che Dio aveva accompagnato ogni mio passo. Da allora – prosegue -, memore che col medesimo metro di misura sarei stato da lui giudicato, è divenuto un imperativo per me evitare di incasellare i miei assistiti negli schemi a cui ero abituato dalla mia professione… Ma ciò che ha rivoluzionato il mio habitus professionale precedente è stata la certezza che in ogni detenuto andavo ad incontrare Gesù stesso, il quale ha detto: Ero carcerato e tu sei venuto a trovarmi. Fatta questa premessa, che a lui stava particolarmente a cuore, Adriano rievoca alcuni episodi della sua ricca esperienza in carcere. Quella gelida indifferenza Mi è stato un giorno segnalato dalla direzione un giovane di circa 24 anni con una pesante situazione sia penale che psichiatrica (ai furti, rapine, spaccio di droga… s’erano aggiunti vari ricoveri presso apposite strutture). Lo stato paranoico in cui si trovava gli rendeva impossibile stabilire qualsiasi tipo di rapporto, verbale ed anche semplicemente visivo (aveva lo sguardo ostinatamente rivolto altrove). Durante il primo, tempestoso colloquio, ai miei tentativi di gettare un ponte reagiva o col silenzio assoluto o in modo verbalmente aggressivo. Così pure nel secondo colloquio. Al terzo tentativo, mi è venuto da dirgli che, da una parte, ero con- tento di averlo conosciuto, ma dall’altra dispiaciuto di non poter fare di più per lui; pertanto, per rispettare la sua libertà, non l’avrei più chiamato, nella consapevolezza che nell’amore quel che conta è amare, senza aspettarsi alcunché di ritorno. A quel punto l’altro mi ha guardato fisso in faccia, e – quasi avesse letto nel mio passato – ha dichiarato: In tutta la mia vita non ho mai incontrato un solo psicologo che credesse in Dio!. Hai ragione – ho soggiunto -, anch’io sono caduto nell’errore di pensare che la felicità dell’uomo si potesse trovare lontano da lui…. In breve, la gelida indifferenza di quel giovane si è sciolta e per un’ora e mezzo lui mi ha fatto una profonda, logica ed esauriente diagnosi di sé stesso dall’infanzia in poi, come mai m’era capitato di sentire nella mia professione. Mi sono chiesto spesso quale molla sia scattata in quel detenuto (in seguito trasferito in un carcere dove avrebbe ricevuto una migliore assistenza psichiatrica). In scienza si parla di rapporti interpersonali ottimali, di transfert positivi anche di tipo telepatico. telepatico. Ma questa telepatia che cosa comunica se non il nostro io con i suoi pregi e i non pochi difetti? Chi riconosce ed ama Gesù nel prossimo genera invece una realtà senz’altro superiore, in quanto colui che si sente così compreso e amato non percepisce più solo il nostro io’, ma Dio. Nel giorno del Signore Altro episodio: Quel pomeriggio di domenica avevo il turno dalle 17 alla mezzanotte. Entrando in carcere, la collega che sostituivo mi avverte: Adriano, c’è da vedere un detenuto straniero che ha ucciso la moglie. A me non va sinceramente di rovinarmi la domenica: se vuoi, incontralo tu, altrimenti segnalalo ai colleghi del lunedì. Per me, invece, era un’occasione unica, nel giorno del Signore, poter incontrare lui nella persona di quel detenuto. Il colloquio è iniziato in modo sofferto e con frasi sconnesse: il mio interlocutore diceva di sentire voci di soldati inglesi che lo spiavano, che ce l’avevano con lui e lo volevano uccidere… Inoltre provava diffidenza e rifiuto anche verso il medico che gli somministrava qualche antidepressivo (spesse volte l’omicida coltiva l’dea del suicidio!) perché – a sentir lui – il farmaco poteva nascondere del veleno; e via dicendo… Non riuscivo a venirne a capo, sapevo solo che, di fronte a quell’uomo rovinato anche psicologicamente, mi sentivo imperiosamente interpellato: Ero carcerato, ero malato, ero straniero…. Ho tentato così di fare il vuoto dentro di me, perdendo quella tendenza in- conscia ad incasellare l’altro esclusivamente sotto l’aspetto della malattia. E a questo punto il detenuto si è aperto, cominciando un’analisi serena e spassionata di sé. Iraniano, di famiglia benestante, con forti carenze affettive durante l’infanzia, aveva cercato di affermarsi socialmente e culturalmente trasferendosi in Italia… Qui però aveva incontrato difficoltà d’inserimento, gli erano crollati tutti gli ideali, Dio compreso, ed erano sorti conflitti familiari che l’avevano portato all’esasperazione fino a quel gesto estremo. A questo colloquio con lui ne sono seguiti altri con parenti ed amici di famiglia. La sorella, residente a Roma, avendo compreso quanto avesse sofferto suo fratello, ha sospeso ogni giudizio nei suoi confronti. Inoltre ha sentito il desiderio di avvicinarsi a Dio. Quanto alla madre, venuta dall’Iran, ha chiesto perdono ai figli per le mancanze d’amore nei loro riguardi. Questa vicenda mi ha aiutato a capire come la sofferenza del singolo, se partecipata, possa servire a creare un nuovo tessuto sociale evitando così di degenerare. E ciò per un più proficuo reinserimento di chi in carcere sconta una condanna, non sempre o non soltanto per colpa propria. Odissea africana Da Adriano apprendo che gli stranieri costituiscono ora una buona parte della popolazione interna carceraria, più ghettizzati e discriminati degli altri, spesso senza possibilità di pagarsi un avvocato di fiducia e con meno probabilità di trovarsi un lavoro; in genere, figli di famiglie molto numerose (con sei, otto, undici fratelli…). Molti di loro potrebbero raccontare una vera odissea. Come questa, di un detenuto congolese di 28 anni. A due mesi – racconta Adriano – il padre lo sottrae alla madre, fuggendo in una località sconosciuta. Da lei ritrovato quando ha otto anni circa, viene con analogo sistema rapito e portato a vivere altrove. Con una donna che stenta a riconoscere come madre i problemi non mancano… Si convince solo quando lei gli mostra le foto di quando appena nato insieme ai genitori… Il padre si rifà vivo dopo qualche anno. Da lui introdotto a forza in riti violenti e iniziato alla magia nera, è costretto a lavori pesanti per la sua età, in località selvagge, esposto ad ogni sorta di pericoli. Malgrado ciò, essendo intellettualmente dotato, riesce a portare avanti gli studi e in seguito addirittura a iscriversi all’università. La speranza in una vita migliore lo conduce fino in Italia, dove però incontra difficoltà di inserimento e inizia una brutta china: esperienze di droga e di esorcismo, nonché reati vari che gli guadagneranno il carcere. Qui, attraverso frequenti colloqui, la lettura di Città nuova e di altri libri, la corrispondenza epistolare con altri miei amici, questo giovane si riprende ed ha modo di conoscere la spiritualità del movimento, a cui sembra già preparato da tante vicissitudini e da un sincero desiderio di Dio. Fra l’altro, s’era dato all’alcolismo (passaggio molto frequente durante la carcerazione). Finché, leggendo uno scritto spirituale dove si parlava dell’attimo presente e del ricominciare dopo ogni fallimento, riesce con fatica, ma radicalmente, liberarsi da questa ulteriore catena. Aver messo Dio al primo posto (fra l’altro ha voluto prepararsi alla prima comunione e alla cresima) lo aiuta a stabilire rapporti più fraterni con gli altri detenuti. Inoltre non manca mai di segnalarmi quelli di loro più in difficoltà, che possono aver bisogno di un colloquio con me… Il racconto di Adriano finisce qui, ma non perché gli manchino argomenti. Una cosa lui tiene a ribadire ancora: Amare quanti ci capitano vicino esige il vuoto di noi stessi. Quanto a me, sento profondamente vere le parole evangeliche Medico, cura te stesso e Leva prima la trave dal tuo occhio poi…. Solo dopo vengono le diagnosi e le terapie.