Psicologia del suicida terrorista
Quasi ogni giorno, purtroppo, abbiamo a che fare con notizie di attentati compiuti da terroristi che, nel metterli in esecuzione, hanno trovato premeditatamente la morte. Ed è logico come e perché degli esseri umani, naturalmente attaccati alla vita, arrivino a tanto. Per poter capire i comportamenti estremi, che hanno a che fare con la morte, bisogna tenere presente che colui che uccide raramente prova interiormente angoscia o disagio: spesso avverte invece una sensazione di onnipotenza, poiché può inserirsi nella vita di un altro e interromperla. Si potrebbe dire, per paradosso, che uccidere esalta come un’azione straordinaria e può essere quella in cui ci si sente realizzati appieno. La sensazione di poter decidere della vita di un altro è, dunque, una sensazione titanica. Ebbene, un suicida terrorista è un essere umano che distrugge se stesso per uccidere altri uomini, pur di diffondere angoscia e terrore per uno scopo politico o religioso. Ma che cosa, psicologicamente parlando, spinga un suicida terrorista ad un simile comportamento è ancora in gran parte avvolto nel mistero. Fino ad oggi si è pensato che il terreno di coltura degli attacchi suicidi siano la non integrazione sociale, la presenza di una malattia mentale come la psicopatia, ma soprattutto la miseria e la mancanza d’istruzione. Invece, per Scott Atran, un ricercatore dell’università del Michigan che ha analizzato questo fenomeno a partire dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, esisterebbe un identikit psicologico dei kamikaze molto diverso. Secondo le sue valutazioni (pubblicate in Science, n° 199, 2003), l’immagine predominante di questi uomini votati all’estremo sacrificio sarebbe del tutto falsa; scrive Atran: Non conosco nemmeno un attentato suicida che sia stato compiuto da un uomo povero, isolato, e psichicamente instabile. In effetti, neanche l’opinione pubblica araba è d’accordo con quella immagine, e sempre Atran ricorda che una guida spirituale della Fratellanza musulmana ha scritto in un settimanale egiziano che l’azione di un kamikaze perderebbe significato se egli fosse, per esempio, stanco di vivere. La motivazione degli attentatori suicidi è differente: Chi affronta il martirio si offre in sacrificio per la sua religione e per il suo paese. Ed il loro sacrificio non significa la morte, bensì l’ingresso in Paradiso, dove i loro peccati saranno perdonati, e dove potranno portare con sé i loro cari e i loro amici dinanzi al trono di Allah. Ciò spiega in parte anche l’entusiasmo suscitato dai kamikaze in alcuni paesi arabi, dove spesso i ragazzi collezionano ritratti degli attentatori come i loro coetanei occidentali le figurine dei calciatori. La morte trasforma i terroristi negli eroi della loro generazione e sono tutti piuttosto giovani, quasi sempre maschi e celibi, tant’è che secondo lo psichiatra Thomas Bronish del Max Planck Institut di Monaco di Baviera: Ci sarebbe da supporre che siano particolarmente sensibili all’influenza di capi carismatici e messaggi salvifici. Ma com’è possibile che intere fasce di popolazione approvino e promuovano azioni così estreme? Secondo Atran, si tratta di un meccanismo di sopravvivenza, che permette di agire in condizioni altrimenti paralizzanti . Una persona che si sente in un vicolo cieco, senza vie d’uscita, può ricorrere a mezzi disperati, con l’obiet- riconsiderare le sue posizioni a dispetto della superiorità di cui gode. Questa condizione, associata alla religione, alla ideologia e alla lealtà assoluta, cambierebbe anche l’atteggiamento verso la propria sopravvivenza. Secondo Atran anche nei paesi occidentali si ricorre a metodi simili di persuasione. Le industrie del fastfood e della pornografia si rivolgono a bisogni umani ugualmente innati come il bisogno del cibo e quello del sesso, ma entrambe manipolano un desiderio naturale fino a farlo diventare dannoso e addirittura distruttivo. L’elemento che Atran ritiene più importante, però, è il senso del dovere provato dall’individuo nei confronti del suo popolo e della sua fede. Egli ricorda che, già negli anni Sessanta, si fece una serie di esperimenti per comprendere a quali condizioni certi soggetti possano compiere azioni che l’opinione comune considera eticamente condannabili. Stanley Milgran dell’Università di Yale, scoprì per esempio che in determinate situazioni gli studenti erano disposti a commettere azioni moralmente discutibili, obbedendo all’ordine di un istruttore di infliggere ad alcuni compagni scosse elettriche sempre più forti perché memorizzassero meglio alcune coppie di parole. La maggior parte dei partecipanti all’esperimento obbedì, a condizione che lo sperimentatore si assumesse l’intera responsabilità. La disponibilità a infliggere le scosse non fu alterata nemmeno dalle finte grida di dolore che arrivavano dalla stanza delle vittime. Anche in questo caso, la motivazione dei partecipanti non va cercata in una forma di sadismo, bensì in un senso di obbedienza a un’autorità. Lo stesso senso di impegno morale che viene stimolato durante l’addestramento dei kamikaze: là dove domina un’impressione di ingiustizia storica, di soggezione politica e di umiliazione sociale, l’attentato suicida diventa uno strumento dello scontro politico. È possibile disinnescare questi meccanismi? Il parere di Atran è che probabilmente non servono a nulla l’isolamento di gruppi religiosi ed etnici, così come non servono a molto gli embarghi economici o le azioni militari preventive contro i paesi che si presume sostengano le organizzazioni terroristiche, mentre sarebbe importante, invece, metter fine alla demonizzazione prodotta dalla propaganda religiosa e politica, ed avviare una robusta campagna di dialogo con l’Islam moderato, al fine di costruire una cultura del convivere in un mondo più unito, una cultura della fraternità universale dove le persone, i popoli e gli stati si riconoscano reciprocamente legati fra loro, come è stato ribadito nella Seconda giornata dell’interdipendenza che si è svolta a Roma l’11 e 12 settembre scorso.