Una psicologa nella formazione per i seminari
Dall’estate del 2007 a oggi, il Corso per formatori nei seminari alla luce dei punti della Spiritualità di comunione propria del Carisma dell’unità, è arrivato ormai a più di dieci edizioni in Italia e due (in lingua inglese) in Thailandia e nelle Filippine, con un numero considerevole di partecipanti.
L’obiettivo è la formazione integrale, con un forte senso comunitario e un incisivo dinamismo missionario.
Nel 2016, con la nascita del Centro Evangelii Gaudium (CEG) presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, è stata rivista la proposta formativa, allargando i destinatari non solo ai formatori dei seminari, ma a tutti i formatori. L’obiettivo è una preparazione adatta a “camminare insieme”, affinché chi è chiamato ad esercitare il servizio dell’autorità lo possa fare in modo evangelicamente centrato e attento alla maturazione della cultura sociale.
A causa della pandemia, il corso quest’anno si svolge in modalità online. Abbiamo intervistato la psicologa Chiara D’Urbano, docente del corso.
Chi è Chiara D’Urbano e perché partecipa a questo corso?
Sono una psicologa e psicoterapeuta. Mi occupo da molti anni di processi vocazionali. In particolare, sono una psicoterapeuta credente, ma questo solo per chiarire la cornice di riferimento in cui inserisco il mio lavoro. Mi occupo da molti anni, sia come attività formativa che come attività clinica, di percorsi vocazionali per seminaristi, sacerdoti e persone a vita comune in formazione. Quindi consacrati e consacrate.
Questo significa che lei ha l’occasione di ricevere nel suo studio professionale le persone consacrate…
Sì. Per cui porto come contributo al corso non tanto la teoria, quanto l’esperienza di vita, l’incontro con persone, con volti e con storie. Questo per me è una grande ricchezza, ho modo di accostare i percorsi sia iniziali che successivi, con tutte le sfide, i momenti di forza, ma anche quelli di debolezza, personali e interpersonali.
Quindi anche comunitari…
Sì, il focus del mio contributo al corso è proprio la vita fraterna, un tema che mi appassiona molto. Nel mio intervento rifletterò sul senso della fraternità in un millennio complesso e contraddittorio come quello che stiamo vivendo. Dopo la pandemia siamo tutti alla ricerca di nuove formule per stare insieme perché quelle precedenti sembrano scricchiolare.
In pratica, come vivere bene insieme in comunità…
Le esperienze di vita in comune sono segni di speranza irrinunciabili per la nostra cultura. Con la bellezza che portano, ma anche le sofferenze. Oggi infatti le comunità risentono di diverse tensioni, per cui dirò qualche parola su cosa non sono le comunità di fraternità: non sono famiglie in senso stretto, non sono un gruppo di amici, non sono un’azienda di lavoro. L’anomalia meravigliosa della fraternità si caratterizza per una scelta trascendente, ma anche umana. Ha caratteristiche specifiche che non si possono mutuare da altri contesti.
Il suo intervento tratterà anche il tema degli abusi. Nella discussione in corso, ogni tanto c’è chi dice che gli abusi nella Chiesa dipendono dal fatto che i preti sono celibi…
Legare gli abusi al celibato è proprio sbagliato, privo di fondamento sia dal punto di vista spirituale che psicologico. Rossetti, che negli Usa ha un centro per religiosi in difficoltà, nega completamente queste generalizzazioni indebite. Le cadute dipendono da fragilità personali, non dal celibato, che nella Chiesa tra l’altro risale all’XI secolo. Abusi ci sono anche in altre situazioni che non prevedono il celibato, come la famiglia o le organizzazioni sportive.
La società cambia, cambiano anche le comunità?
Certo, sono laboratori a cui possiamo guardare per verificare come stare bene insieme. La società sta cambiando, ma le comunità vocazionali, le fraternità di vita consacrata, le organizzazioni ideali rimangono importanti e necessarie, punto di riferimento e di speranza. Anche perché le nuove generazioni portano sfide inedite, costringono le realtà consolidate a verificare sé stesse. Lo stesso calo numerico ci spinge a ripensare certi dinamismi.
Lei è ottimista sul futuro delle comunità vocazionali?
Sono ottimista perché non possiamo fare a meno di queste esperienze: luoghi dove persone che non si conoscevano, senza legami di sangue, motivate solo da un carisma e da un servizio, dimostrano che si può stare bene insieme, anche se a volte con qualche fatica. Senza le comunità perderemmo una grandissima ricchezza.
In allegato il programma dell’evento e la scheda di iscrizione al corso