Provocatoria Berlino

Ormai è una regola codificata. Se lo scandalo non c’è bisogna andare a cercarlo. Altrimenti i media non avrebbero motivo di scatenarsi e di mettere in moto quella cassa di risonanza che rappresenta il miglior megafono perché un festival faccia parlare di sé. Al Festival di Berlino lo scandalo è stato Il Vicario di Hochhut, il testo teatrale che negli anni Sessanta alimentò polemiche sull’onda delle responsabilità attribuite dal drammaturgo tedesco a Pio XII, colpevole, a suo dire, di non aver denunciato pubblicamente la tragedia della Shoa. A quarant’anni di distanza, quel testo è stato portato sullo schermo dal greco Costa-Gavras – regista che deve la sua fortuna a un cinema di impegno politico e di denuncia civile – con il film Amen. Negli ultimi tempi con la caduta delle ideologie e la “fine della Storia”, il terreno abituale nel quale si trovava a suo agio si è inaridito e, forse proprio per poter tornare sulla cresta dell’onda, egli non ha trovato di meglio che rispolverare un pamphlet debole dal punto di vista drammaturgico, didascalico e inaffidabile dal punto di vista storico per il semplice motivo che i documenti relativi a quel periodo sono ancora top-secret e che soltanto in questi giorni papa Wojtyla ha deciso di aprire gli archivi vaticani per porre fine “a ingiuste e ingrate speculazioni”. Provocazioni, dunque. E, tanto per restare in argomento, ecco che proprio come film d’apertura è stato messo in programma Heaven del tedesco Tom Tykwer. Un film che, visti i cattivi rapporti che da alcuni anni intercorrono fra il Festival di Berlino e il cinema italiano, suona un po’ come una sfida, intenzionata a gettare benzina sul fuoco di già difficili relazioni. Heaven racconta l’intrico di complicità che si instaura fra un giovane ufficiale dei carabinieri e una ragazza che, per vendicare la morte del marito, decide di farsi giustizia da sé. Il guaio è che a pagare non sono i narcotrafficanti contro i quali si indirizza la vendetta della giovane donna, ma un gruppo di innocenti. Che cosa fa l’ufficiale dei carabinieri? Invece di arrestare la ragazza, la fa evadere e l’aiuta a farsi giustizia da sola. Provocatorio, ma a modo suo, con quel tocco caricaturale di grottesca ironia che contraddistingue il georgiano Otar Iosseliani, Lunedì mattina si erge a paladino dei fumatori, simbolo di tutti i discriminati del mondo che devono sopportare divieti e anatemi. Non una polemica in favore del fumo, che serve soltanto da pretesto, ma contro tutte le isterie che nascono dalla negazione dei piaceri della vita. Ma, al di là dei singoli film che possono distinguersi fra gli altri per il sensazionalismo dei contenuti, se c’è un dato che spicca sopra ogni altro nel 52° Festival di Berlino, esso si manifesta nella differenza fra il cinema americano e quello europeo. Mentre il cinema americano è alla ricerca di grandi storie capaci di tradursi in altrettanto grandi messe in scena spettacolari, il cinema europeo predilige vicende sensazionali, capaci di colpire l’immaginario collettivo, di scuoterlo dalla distratta sonnolenza nel quale lo costringono a sprofondare i programmi televisivi. Il cinema americano evidenzia appieno queste sue linee di tendenza in The Beautiful Mind di Ron Howard (8 candidature all’Oscar, storia della caduta nel tunnel della schizofrenia del premio Nobel per la matematica John F. Nash, ottimamente interpretato da Russell Crowe); in Gosford Park del vecchio leone Robert Altman (77 anni), caustica allegoria del mondo diviso in classi, dove ognuna cerca di sottomettere l’altra; in Monster’s Ball di Marc Forster, dura requisitoria contro la pena di morte. Dal canto suo il cinema europeo preferisce invitare lo spettatore alla riflessione dei nodi che prima o poi arrivano al pettine della Storia, prima ancora che cercare di affascinarlo con le immagini. Mentre con Iris l’inglese Richard Eyre sottolinea queste differenze di metodo delle cinematografie al di qua e al di là dell’Atlantico soffermandosi sul dramma della follia con uno spirito diverso rispetto a quello che anima A Beautiful Mind, il connazionale Paul Greengrass in Bloody Sunday ricostruisce la strage compiuta nel 1972 in Irlanda del Nord dai paracadutisti britannici che aprirono il fuoco su un corteo di pacifisti uccidendo 14 persone. Sempre andando a ritroso nella Storia, con Laissezpasser il francese Bertrand Tavernier rievoca i tempi del cinema collaborazionista del regime di Vichy, quando la Francia era stata occupata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale: e apre una nuova pagina sulle responsabilità alle quali molti francesi vorrebbero sottrarsi ancora oggi dopo oltre cinquant’anni. E, ancora dalla Francia, ecco Otto donne di François Ozon, metafora di un intrigo che nell’eterno femminino trova la sua matrice più autentica e, forse, anche la soluzione per il mondo di domani. Fra le due sponde opposte c’è chi sperimenta un tentativo di mediazione: il tedesco Christopher Roth con Baader (dal nome di Andreas Baader, il leader della famigerata Rote Armee Fraktion) che trasferisce la cronaca degli “anni di piombo” nell’immaginario di un western metropolitano. Risultato? Un mostro alla Frankenstein. Si finisce con un’ultima “provocazione”: un 50 per cento di Orso d’oro al cartone animato giapponese Il viaggio di Chihiro di Hayao Miyazaki (l’altra metà è toccata a Bloody Sunday). Primo film d’animazione premiato a un festival, dopo che la piena dignità del “genere” era stata riconosciuta a Shrek della Walt Disney, ammesso in concorso a Cannes 2001. Questa volta si è fatto di più e all’invitato si è riservato un posto di capotavola.

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