Protagonisti del proprio riscatto
Florianpòlis, Florípa per i brasiliani, ci si arriva in un inverno che per un italiano è estate, sole splendente, 26 gradi, vento fresco dell’oceano su un’isola che è uno dei paradisi del surf internazionale. È venerdì e all’aeroporto famiglie brasiliane griffate e abbronzate attendono il check-in per andare a passare il weekend a Miami. Il miracolo brasiliano, mi viene in mente un titolo giornalistico, ma poi ricordo le parole di Vilson, il mio amico sacerdote che vive qui nel Morro de Montserrat: in questo momento di sviluppo economico – in cui è al governo una coalizione di sinistra – il 10 per cento della popolazione brasiliana detiene il 75 per cento della ricchezza. Questo magnifico Paese vive oggi più che mai la notte oscura dell’ingiustizia sociale, proprio nel momento in cui entra a far parte dei Paesi ricchi. Vilson viene a prendermi all’aeroporto. Un lungo, commosso abbraccio dopo esserci incontrati a Firenze a febbraio. Che cosa siamo venuti a fare a Florípa? Definizione sibillina: focolare temporaneo. Che vuol dire semplicemente vivere la mia vita di donazione come focolarino assieme ad altri compagni abitando per un periodo nel cuore di una favela (ma ai miei vicini di casa non piace chiamarla così), nel Morro de Montserrat, in una delle comunità impoverite della grande Florianòpolis. Già, i poveri non sono tali per natura ma per impoverimento. Sul Morro – una delle colline che circondano la città – vivono dal secolo XVIII gli eredi degli schiavi neri e dei bianchi poveri che lavoravano nella pesca e nelle attività portuali. Adesso il Morro de Montserrat, dove Vilson vive da 25 anni, è la comunità madre di altre 17 comunità impoverite che si sono riunite in un forum che esercita i propri diritti di partecipazione democratica dialogando e interpellando il comune e lo Stato di Santa Catarina. Qui non si fa qualcosa per i poveri, ma si lavora quotidianamente a tutti i livelli: educativo, urbanistico, ambientale, politico nel senso vero della parola, a partire dalla concretezza della condizioni di vita per conquistare dignità. Perché allora un focolare proprio qui? Me lo sono chiesto assieme a Junior, 28 anni, brasiliano di Porto Alegre, a Fabio, studente palermitano di 22 anni, a Marius, biondo bavarese che inizierà ora l’università, a Helson, educatore sociale dall’indefinibile età, comunque superiore ai 50. In genere i focolari sorgono nei pressi del centro delle grandi città e la nostra scommessa risponde ad un antico desiderio di Chiara Lubich, la quale nel ’62, quando visitò per la prima volta il Brasile, a Recife rimase sconvolta dalla povertà e sognò un focolare nei quartieri poveri. Ai giovani del movimento, poi, Chiara ha insegnato a guardare a Gesù abbandonato come all’uomo-mondo, all’uomo che ha in sé la capacità di incontrare ogni cultura e ogni persona perché seppe farsi nulla per amore. Che cosa succederà se vivremo così qui in periferia? Poveri di noi, dei nostri schemi mentali, fuori di noi per vedere solo Dio presente in ogni persona che incontriamo, è la Parola del mese che viviamo… Ogni giorno ci proviamo, poi a pranzo, a cena, aspettando l’autobus, pulendo il pavimento, preparando la caipirihna prima di cena, ogni momento è buono per raccontarsi quello che sta succedendo dentro e attorno a noi. In questi giorni ho ascoltato il grido dell’abbandono in almeno quattro modi diversi – dice Junior -: il grido degli esclusi, di chi vive per strada, ma anche il grido della società ricca che, non riconoscendo la realtà dei poveri, vive una vita individualista, vuota. Ma lo stesso grido c’è nei politici che fanno finta di non vedere e anche nella Chiesa che nelle sue strutture tradizionali non riesce ad arrivare ai più poveri tra i poveri, per i quali ha fatto la sua opzione preferenziale. Siamo qui per ascoltare e rispondere a questo grido. I primi giorni, semplicemente, Vilson ci accompagna strada per strada, casa per casa. Nel 1979 – racconta – abbiamo iniziato ad occupare le terre con il movimento dei senza tetto, dopo aver preparato per mesi ogni dettaglio, ma sopratutto lavorando sul piano culturale con le persone più povere che avrebbero occupato: si faceva educazione alla partecipazione politica, si leggeva il Vangelo insieme per farlo entrare nella nostra vita quotidiana. Poi si arrivava, si occupava, si costruiva. Di fronte alla messa celebrata all’aperto la polizia si fermava. I vecchi militanti riconoscono Vilson, escono di casa, salutano, piangono mentre ci abbracciano: Oi pai!… Gli anni più belli della mia vita. Poi è arrivato il narcotraffico. Tutto gira attorno alla coca e la coca gira attorno al centro della città, al turismo straniero, alle ville hollywoodiane della Florípa- bene. Il centro continua a colonizzare la periferia, prima con la povertà e con il senso di inferiorità culturale e infine usa i ragazzi neri e poveri come manodopera a basso costo. La vita dei ragazzi non vale nulla. Si muore di narcotraffico a Florípa. Ma è dalle comunità impoverite rinate dalla lotta che viene l’idea di rovesciare lo stato delle cose: mai più nessun ragazzo morto per droga. Dieci anni di lavoro sociale per ricreare i legami di solidarietà e legalità tra centro e periferia. Nasce il consorzio Aroeira, mille ragazzi coinvolti in attività professionalizzanti e decine di imprenditori impegnati a dargli lavoro come apprendisti, anche grazie ad una legge ad hoc. I ragazzi del consorzio sono interlocutori in prima persona dello Stato, del comune, degli imprenditori. Il rovesciamento si è realizzato: adesso è la periferia a colonizzare il centro con i valori della solidarietà. Già. La solidarietà. Bella parola. Una mattina si arriva all’Ipc, un Vivaio popolare di cooperative gestito dal consorzio. Lo Stato ci aveva dato a disposizione la struttura dell’Istituto medico legale, il luogo dove si facevano le autopsie dei nostri compagni morti – ci racconta Djavan -. Lo spettacolo era terribile, abbiamo pulito e dipinto tutto di nuovo ma abbiamo lasciato i lettini di alluminio che servivano per le autopsie. Adesso servono per costruire e dipingere le tavole da surf. Siamo tutti senza fiato. Non c’è modo migliore per capire come la vera battaglia per la solidarietà non è per una bella idea, come può sembrare in Europa, ma è per la vita o per la morte. Ma la vita del nostro focolare temporaneo ha anche un altro centro, un altro fuoco: mai ho vissuto l’Eucaristia in questo modo, in pochi o tanti, seduti attorno al tavolo di cucina o nella chiesetta con la comunità o in una cappella universitaria al centro della città, perché il Pane e il Vino avevano quel sapore? Una sera partiamo dopo la messa per portare la cena alle persone della strada: il Pane era diventato una buona zuppa di pollo con la pasta, bella calda da condividere con gli abitanti della strada, sul porto. Sono abituati all’appuntamento, ma quella sera vengono in pochi. Con Vilson decidiamo di andare noi da quelli che non riescono neanche ad alzarsi. Svegliamo un giovane strafatto, ci ringrazia e riprende a dormire. Un altro si mette in piedi a fatica e comincia a mangiare. Ma è l’ultimo che risponde alla mia domanda, riemergendo da un cumulo di cartoni; vede il pane e dice tre volte: È corpo, è corpo, è corpo. Ora capisco. Quello è il Corpo che avevamo celebrato poco prima. Stamani è il vescovo che viene a trovarci, viene a fare colazione in periferia e il nostro focolare – bellissimo ai nostri occhi ma abbastanza sovraffollato, anche se meno di una casa di periferia! – è oggi il cuore della Chiesa locale, con i bambini delle scuole materne ed elementari che arrivano per i progetti. Era non da niente ieri pomeriggio vedere Marius assediato dai bambini per strada faticare col portoghese con una serietà infinita e alla fine i ragazzi che lo ascoltano come un guru. Piccole grandi fatiche e soddisfazioni per chi decide di dis-locarsi. Oggi s’è buscato un raffreddore andando a fare surf con il gruppo dei peggiori. Quando racconta di sé, la logica tutta filosofica e nordeuropea della sua argomentazione è luce pura e entusiasmo per quello che ha visto e scoperto. Il più sfacciato è Fabio, il quale è riuscito a dare un magnifico accento palermitano alle poche parole di portoghese che conosce. È una macchina da guerra: in carcere minorile abbiamo incontrato un gruppo di ragazzi dei quali neanche uno riusciva ad alzare il viso per guardarci. Si deve superare la barriera invisibile, ma enorme, tra chi sta dentro e chi sta fuori. Fabio canta, suona, improvvisa, suda e muove tutto quello che può per farsi capire. Qualcuno alza la testa. Uno si mette a cantare per rispondere alla sua canzone: 20 minuti di rap, interminabile, torrenziale, ritmo e parole che parlano della vita vera, della povertà, del carcere, delle botte e del riscatto possibile. L’applauso non finisce più. Il ritorno, direte? Lo facciamo raccontare ad Helson, a nome di tutti. Adesso cammino per le vie di Porto Alegre e tutto è diverso: poveri, matti, bambini di strada, vecchi abbandonati sui marciapiedi non sono più paesaggio, sono lui, solamente, straordinariamente lui.