Protagonista il violino
Ogni titolo di Selma Lagerlöf – e l’ultimo, pubblicato da Iperborea, Il violino del pazzo non fa eccezione – avvince fin dalle prime battute il lettore, che si trova immerso in un racconto inconsueto, ricco di elementi fantastici che colpiscono l’immaginazione. Un racconto che esprime verità profonde e celebra la vita, l’amore, come in un rito catartico dove attraverso prove e difficoltà si arriva purificati alla realizzazione di sé: è il lieto fine immancabile nelle fiabe così care all’autrice svedese Premio Nobel.
Stavolta protagonista di questo romanzo, per la prima volta in traduzione italiana, è un violino che con la sua potenza ammaliatrice fa sembrare tutto possibile a colui che ne ascolta la musica. Legato al suo strumento come con un patto nuziale, il giovane studente Gunnar Hede si sente chiamato ad una carriera musicale. Eppure deve rinunciarvi e diventare, come il nonno, commesso viaggiatore per conservare la proprietà di Munkhyttan alla famiglia. Riuscirà a salvarla, ma a prezzo della perdita della ragione.
D’ora in poi come venditore ambulante Hede si aggira per i borghi della Darchelandia, deriso come un pazzo vagabondo dalla gente che incontra. Ancora porta con sé il violino cedutogli dal suonatore cieco di una compagnia di saltimbanchi incontrata a Uppsala, ma la sua mente malata non sa più ricordare le arie di un tempo: tocca ora allo strumento custodire tutte le melodie, riservate a pochi eletti: «Era il violino che parlava e parlava, lui ascoltava soltanto. Era meraviglioso, comunque, che non appena passava l’archetto sulle corde, ne uscisse qualcosa di così bello. Era il violino che si occupava di tutto, sapeva cosa andava fatto, l’uomo si limitava ad ascoltare. Da quel violino spuntavano canzoni come l’erba della terra».
Il suono del violino del pazzo è talmente portentoso da richiamare alla vita, un giorno, Ingrid, la figlia del suonatore cieco, caduta in un torpore scambiato dagli altri per morte. Cinque anni sono passati dal giorno in cui la ragazza s’era innamorata del bel giovane che in lei aveva visto la sua futura compagna, e da allora ha sempre pensato a lui, rivedendolo nei suoi sogni, ancora studente, accorrere in suo aiuto. Ora però non lo riconosce, segnato com’è dalla sofferenza, nel venditore ambulante che l’ha salvata, anche se ne rimane attratta per un senso di riconoscenza profonda.
Come il suono del violino ha riportato in vita Ingrid, così sarà lo stesso suono a guarire Hede nel momento più buio della sua vita e quindi a riavvicinare entrambi. Quando, ripreso in mano lo strumento dopo tanto tempo, con dita non più agili egli faticherà a suonare perfino i più semplici pezzi infantili. «Aveva la netta sensazione che nel suo cervello ci fosse una grande tenebra che nascondeva il suo passato. [..] Ma quando suonava la tenebra recedeva. Senza che se ne accorgesse, l’oscurità si era ritirata al punto da permettergli di ricordare gli anni dell’infanzia e della scuola».
Doloroso ma salutare per entrambi è il ritorno alla realtà: se davanti all’orrore degli anni di follia e di abbrutimento, di giudizi e derisione della gente, Hede deve resistere alla tentazione di risprofondare nella pazzia che è anche oblio, Ingrid da parte sua dovrà accettare il divario profondo esistente tra l’amato dei sogni e la creatura ferita che le sta davanti. Questo sa fare l’amore in una storia che rivela una volta di più la finezza psicologica della Lagerlöf nell’indagare le anime dei suoi personaggi.
Il violino torna ad essere protagonista nell’ultimo libro di Alessandro Zignani: Il violinista di Birkenau. Edito da Nuovadimensione, è la storia ispirata ad eventi reali di Isaac Singer, che prima di finire vittima in quel campo di sterminio durante l’occupazione nazista della Polonia, col suo archetto trascinò «verso l’Altrove» prigionieri e aguzzini.
Suo padre Joshua, cantore nella Sinagoga di Berlino, grazie ai suoi meriti artistici evita la deportazione, ma ad una condizione spietata: deve scegliere chi, tra i suoi due figli, dovrà essere deportato: se Isaac, ipersensibile e dotato violinista, oppure Abraham, architetto con una natura più positiva del fratello. Convinto che Isaac non potrà comunque sopravvivere a lungo, Joshua – novello Abramo che sacrifica Isacco – sceglie lui.
Molti anni dopo, nel 1978, un concerto commemorativo dell’Olocausto mette l’anziano cantore in contatto con Mathias, un vecchio violinista sopravvissuto a Birkenau, dove – si viene a scoprire – è stato compagno di baracca di Isaac. In una lunga conversazione questi gli narra del figlio, la cui musica sembrava vincere la morte stessa, e come l’orchestra di Birkenau avesse dato la forza di sopravvivere a tanti: «Tutti noi eravamo, in modo diverso, rassegnati al nostro destino; lui pareva fosse morto prima di giungere in quella baracca. L’ingiustizia subita lo aveva ucciso, e ora esisteva solo come suono. Un suono puro, signore, di una purezza terribile».
«Dovevamo suonare – rievoca ancora Mathias – per mettere in marcia le squadre di lavoro, e di nuovo, la sera, per riportarle nelle baracche. Dovevamo suonare anche quando le loro file andavano verso le camere a gas, e allora le SS volevano canzoni allegre, arie della Vedova allegra, marce festose. Capii, in quel momento, che il silenzio è una forma di lutto: forse, l’unica legittima».
Per raccontare l’assurdo della Shoah, Zignani ha usato due tecniche: quella del contrappunto musicale, che dalla sovrapposizione di melodie diverse sa creare un’armonia, e quella del simbolismo, rappresentato dalla civiltà minoica, che «celebrava il sacrificio umano come un rituale di rigenerazione». La prima diventa qui «un modo per porre in parallelo vicende che nella realtà si sono svolte in luoghi e situazioni diverse»; la seconda, adoperata nel descrivere il viaggio a Creta della vedova di un musicista morto a Birkenau, è palese richiamo ai milioni di ebrei sacrificati in nome della purezza della razza ariana. E questo in un romanzo esaltante la musica e la sua capacità di far rimanere umani anche coloro che vivono all’inferno.
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