Protagonista del nostro tempo

Un ricordo di Tullia Zevi, esponente di spicco del mondo ebraico, morta sabato scorso a 92 anni. Oggi i funerali
Tullia Zevi

La notizia della scomparsa di Tullia Zevi, esponente di spicco delle comunità ebraiche italiane e non solo, mi ha interpellato da vicino. Ho avuto la fortuna di conoscerla personalmente grazie ad una comune amica e, se dovessi usare un aggettivo per definirla, il primo che mi viene in mente sarebbe acuta; di seguito direi colta, raffinata, sensibile, aperta, e si potrebbe continuare. Non me ne voglia la Zevi, che essendo stata anche giornalista, possedeva, eccome, il senso della misura. Ma non credo di eccedere.

 

In quegli anni, parlo del 1997, Tullia, come amava farsi chiamare anche da una giovane come me, era presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, incarico che ricoprì dal 1983 al 1999, e dunque quando si muoveva veniva accompagnata da una scorta, verso la quale nutriva grande attenzione e simpatia. Fu uno dei lati del suo carattere sensibile che mi colpì, come pure la cordialità intorno ad una tavola, l’accoglienza nella sua bella casa a Trastevere.

Capisco che la nipote Nathania, sulle pagine del Corriere, possa dirle: «Già ieri, chissà se te lo saresti aspettato, giornali e televisioni hanno ripercorso la tua vita densa di impegni e successi, dagli anni dell’antifascismo alla presidenza Ucei, dall’esilio in America alla commissione d’inchiesta sui crimini commessi dai ministri italiani in Somalia. Lo stesso percorso che tu ed io, di fronte ai pranzi squisiti che cucinavi, tra risate e qualche volta anche lacrime, abbiamo fatto qualche anno fa per pubblicare il nostro libro».

 

E non a caso il presidente Napolitano ha ricordato così la sua figura, uscendo dalla camera ardente allestita presso l’ospedale Fatebenefratelli: «Un ricordo affettuoso e riconoscente per una persona che ha svolto un ruolo importante con una dedizione e un’intelligenza straordinarie e per una persona alla quale ho voluto bene».

 

Perché così era la Zevi: una donna che ha vissuto da protagonista la vita politica, religiosa e culturale del suo tempo e una persona attenta agli affetti familiari e capace di fare casa alle persone semplici. Attenta al dialogo così ebbe ad esprimersi qualche anno fa: «Il salto di mentalità che dovremmo compiere tutti insieme, al di là delle appartenenze religiose, culturali o politiche, è quello di passare da una cultura della tolleranza a una cultura del dialogo. La tolleranza deve finalmente lasciare il passo al dialogo paritetico tra maggioranze e minoranze. C’è ancora molta strada da fare, ma bisogna proseguire su questo sentiero».

 

Nel periodo in cui l’ho conosciuta stavo ultimando i miei studi presso la scuola di giornalismo della Luiss e mi trovai a chiederle se, fra i suoi tanti impegni, non fosse stata disponibile a concedermi un’intervista per la tesi. Accettò subito e per me fu una lezione di giornalismo. Sebbene si tratti del 1998, gli spunti e le riflessioni della Zevi, riportati qui di seguito, sono di una stringente attualità e possono far bene anche alla nostra Italia.  

 

 

Il giornalismo rispecchia la società in cui opera? E se sì, qual è il rapporto fra la nostra società e il nostro giornalismo?

«Dovrebbe rispecchiare la società. Io ho vissuto e lavorato molti anni nel mondo anglosassone, negli Stati Uniti, per cui ho assorbito i princìpi del giornalismo anglosassone a cui ho sempre cercato di aderire. Per questo motivo vedo i pregi e i difetti del giornalismo italiano con un certo distacco. E quali sono questi princìpi? Sono fondamentalmente due: separare i fatti dal commento, dall’interpretazione, ed essere il più sintetici possibile. C’è anche una regola: non dire mai “io”. Se tu racconti i fatti, non c’è bisogno di personalizzazione. E poi occorre ridurre al minimo gli aggettivi, in modo da essere il più concisi possibile. Tutto ciò rende naturalmente il giornalismo più stringato. C’è anche un altro principio importante: è il famoso lead, cioè dare nelle prime tre righe, in estrema sintesi, il contenuto della notizia. Poi si scandiscono i fatti nel loro svolgimento. Il commento, l’elaborazione sono altrettanto necessari, ma fatti in maniera sintetica.

«Il giornalismo italiano è vivace, brillante. Qualche volta non è rigorosissimo, ma risponde un pochino al carattere italiano, alla lingua italiana, che è molto ricca, un po’ barocca. Il giornalista italiano è figlio del carattere degli italiani e della loro cultura».

 

C’è nel giornalista italiano la capacità di porsi al servizio del cittadino, delle istituzioni, del Paese, di favorire un’integrazione, di illuminare il processo storico in corso?

«Non si può generalizzare. Ci sono alcuni giornalisti che lo fanno e altri no. C’è il giornalismo come dovere, come missione e quello inteso come espressione della personalità individuale. C’è il giornalismo del direttore che è un po’ il capitano di una nave, quello del cronista e del notista politico. Insomma il giornalismo è una giacca molto variegata, di tanti colori. L’informazione deve essere al servizio del cittadino, il cittadino deve sapere, deve essere informato, deve essere anche orientato. Taluni organi di stampa rispecchiano gli interessi di un partito o interessi industriali, commerciali, economici. Penso invece che il giornalismo dovrebbe veramente essere indipendente da tali interessi.

«Per esempio se il giornale è dell’Eni, o è dei Caltagirone, è difficile che sia obiettivo nei confronti della gestione degli enti statali o dell’industria edile. Quindi è logico che tutti questi intrecci di interesse vadano a scapito dell’obiettività dell’informazione giornalistica. Nei paesi anglosassoni, invece, il giornalismo è un interesse a se stante, rappresenta e gestisce se stesso».

 

E cosa pensa del modo di trattare la notizia politica, che spesso trascura i fatti e dà rilievo alle opinioni ?

«Come dicevamo prima il giornalismo non dovrebbe puntare sul sensazionale anche se si deve richiamare l’attenzione del lettore. Sia il titolo che il lead sono degli acchiappa lettori, ma questo deve avvenire non fuorviandoli, ma indirizzandoli verso i punti di massimo interesse».

 

La stampa dà rilievo a certi fatti trascurandone altri, non solo e non sempre per i criteri di notiziabilità. Quali sono, secondo lei, i fatti generalmente più trascurati e a cui, invece, bisognerebbe dare rilievo?

«Occorrerebbe evitare la ricerca del sensazionalismo e non ingigantire certi aspetti della realtà. C’è quella famosa frase che circola in ambiente americano che dice: “Se un cane morde un uomo non è una notizia; se un uomo morde un cane questa è una notizia”. Il direttore della prima Agenzia per cui ho lavorato, (Religious News Service, un’agenzia di notizie religiose, non confessionale) soleva dire: “Ricordati che una mucca cattolica in un prato cattolico è una notizia cattolica”. Cioè ogni testata cerca di enfatizzare l’argomento principale, la ragion d’essere del giornale stesso. Queste cose sono comprensibili ma andrebbero tenute entro certi limiti».

 

A volte si dice che i giornalisti di un tempo erano più bravi, più professionali…

«Non è vero. Una volta non esistevano scuole di giornalismo. La radio e la televisione, riducendo tutto a estrema sintesi, hanno influenzato lo stile giornalistico. Io ricordo che anni fa, quando ero inviata speciale, corrispondente all’estero di quotidiani, settimanali o agenzie mi venivano chieste 1.500, 2.000 parole. Èevidente che diventava un piccolo saggio. È accaduto ad esempio che una serie di miei articoli sulla mafia sono finiti nella libreria del Congresso a Washington. Poi man mano i testi sono diventati sempre più corti. Adesso 400-500 parole sono considerate un articolo lungo. Quindi anche il giornalismo si è trasformato con l’evolversi ed il moltiplicarsi degli strumenti di comunicazione di massa. Praticamente il modo della televisione di dare le notizie – tranne programmi speciali che talvolta sono troppo lunghi – ha cambiato il modo di fare informazione. Difficile prevedere quale sarà il futuro della carta stampata. I giornali sono sempre più voluminosi, pieni di immagini, di pubblicità. Non so se la televisione le abbia dato un colpo mortale, ma certo ha avuto un’influenza fortissima sulla carta stampata. Il giornale arriva sempre quando l’informazione è già passata attraverso la televisione e deve per forza commentare, cercare le persone che lo facciano. Quando una manifestazione è stata seguita in diretta sulla televisione, non si avverte più la necessità di leggerne il resoconto sul giornale».

 

Quindi, secondo lei, la carta stampata ha avuto dei vantaggi o degli svantaggi dall’avvento delle nuove tecnologie?

«Uno dei vantaggi è la stringatezza, però talvolta appunto per differenziarsi dalla notizia immediata e sintetica della televisione, si eccede nel commento. La carta stampata è più condizionata dalla televisione di quanto la televisione non lo sia dalla carta stampata».

 

Torniamo un attimo alle scuole di giornalismo.

«Una volta si imparava la professione giornalistica andando a bottega. Si entrava in un giornale e si avanzava passo passo. Anche io ho cominciato come segretaria di redazione prima di una radio, poi di un’agenzia, e infine ho cominciato a scrivere. Adesso ci sono le scuole di giornalismo che forniscono i princìpi basilari del buon giornalismo. Ciascuno naturalmente ha il proprio stile ma si tende ad una certa omologazione del linguaggio giornalistico. Inoltre, per il fatto che la gente viaggia molto di più, non c’è più un mondo da far conoscere, misteri da svelare, l’informazione si rivolge a persone che già sanno».

 

Le modalità dell’accesso alla professione tramite queste scuole di giornalismo, elimina il sistema clientelare che spesso ne è stato alla base, anche per fare carriera all’interno di una testata?

«No, la raccomandazione esercita ancora un forte condizionamento. Non si entra nei giornali per concorso, c’è sempre qualcuno che ha la strada più spianata di altri».

 

La professione del giornalista esercita tutt’oggi un grande fascino. Qual è la bellezza di questa professione?

«Ci sono vari aspetti. Si entra nel vivo della realtà; si incontrano le persone sul piano delle cose che a loro stanno più a cuore. A prescindere dal giornalismo pettegolezzo e spazzatura il fascino del giornalismo è quello di scoprire delle realtà ignote e spiegarle, saper cogliere l’essenziale delle cose, cercare la realtà dietro le apparenze e raccontarla».

 

Oggi i lettori sono sempre meno.

«Il giornalismo locale pare sia quello che resiste meglio perché la gente ama conoscere i fatti della realtà che la circonda. Per parlare della tua città, del tuo paese, della tua regione, sì, ci sono le televisioni regionali, ma nel giornale c’è spazio per la corrispondenza dei lettori, ci sono tanti fatti che veramente interessano personalmente il lettore. Il contatto può essere più diretto. La stampa può evidenziare certe angolazioni che non sono possibili al mezzo televisivo. Forse il futuro della stampa potrebbe essere soprattutto nella dimensione locale».

 

I giornalisti nel passato sono stati per la maggior parte uomini.

«La stampa rosa c’è sempre stata, però diciamo che la stampa femminile era, ed in parte ancora è un mondo a sé. Adesso anche la stampa femminile tratta di problemi comuni ai due sessi e si rivolge anche ad un pubblico maschile. Io non ho mai voluto fare il giornalismo “femminile” e non mi sono mai pentita di questo. Secondo me il giornalismo non dovrebbe avere sesso: i diritti umani non hanno sesso, il razzismo non ha sesso, si devono proprio sfumare le barriere del genere. Si pone ancora l’accento sul “sesso debole” come se non ci fossero uomini deboli e donne forti. Forse la donna percepisce più acutamente l’angolazione umana. Ma gli uomini adesso si occupano più di una volta dell’allevamento dei figli, dell’andamento della casa, per cui si sfumano le differenze, si vanno omologando le qualità maschili e femminili nell’ambito della professione».

 

In una frase la definizione del giornalismo italiano oggi.

«È un giornalismo che deve essere più stringato, in cui i fatti siano più separati dal commento, che effettui, soprattutto, una rigorosa ricerca delle fonti col cosiddetto “double checking” ossia la verifica della notizia da almeno due fonti». 

 

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