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Festival filosofia Modena: la riflessione di Massimo Cacciari sulla parabola del Samaritano
Modena, ore 15.00 del 18 settembre. Immagina una folla che colora Piazza Grande.
Immagina Massimo Cacciari al tavolo rosso dei relatori. Immagina file di bianche tazzine sotto i portici, nere borse da ufficio e arcobaleni di pesanti zaini, passi e gesti che si rincorrono nell’attesa, fogli di giornale che scherzano con il caldo facendosi cappellini e ventagli.
Ora immagina le ombre scure della roccia desertica sulla strada del Buon Samaritano. Immagina un uomo che lungo la strada vede un viandante stordito, picchiato, solo e senza un soldo. In questa piazza bruciata dal sole, lo stesso incontro potrebbe avere un inizio o una fine.
Quell’uomo si sente squassato nelle viscere per la compassione e il terrore. Sì, perché la vista del totalmente altro gli fa paura. Si approssima, lo prende su di sé, lo porta via, lo alloggia alla locanda più vicina, lo cura, considera ogni sua necessità e predispone la sua guarigione con l’oste. Fin qui, anche gli antichi, forse, si sarebbero spinti.
Nella tradizione classica l’accoglienza dello straniero, lo xenos, era d’obbligo perché sacra. Spesso si riteneva che fossero gli stessi deì a chiedere ospitalità sotto vesti mortali. Ma sempre, nella xenofilia, l’amore all’ospite supplice di cui parla anche Platone, il movimento del dono esigeva uno scambio.
Il samaritano fa qualcosa di ulteriore: si prende carico del prossimo in cui si imbatte fino all’ultima sua possibilità e poi se ne va. Senza chiedere nulla in cambio, senza svelare la sua identità. I due rimangono perfettamente due. Si lascia coinvolgere dal suo prossimo, eppure lo lascia altro da sé. E lo custodisce in questa distanza.
«Anche a livello logico-ontologico – precisa Cacciari – affermare la mia identità non significa dire la mia individualità: è solo dentro la presa di coscienza di essere diverso dall’altro, quindi dentro la relazione, che costruisco la mia identità. È concepibile identità che non sia prossimità? No.
«Non esiste un astratto “io” autonomo e autosufficiente. Piuttosto, solo nella mediazione pensata della relazione con l’altro costruisco me stesso. Kant paragonava l’intelletto ad un’isola i cui confini lambiscono l’oceano. I contenuti di validità dell’intelletto sono gli stessi della relazione: come l’intelletto deve rivolgersi fuori di sé, sappi che per essere non puoi non farti prossimo.
«Sei immerso nell’oceano ma non puoi ridurre te stesso all’oceano, altrimenti cadi nel dogmatismo. L’intelletto ha in sé un movimento di approssimazione a ciò che è altro da sé: si muove e si fa prossimo alla ragione. Così, la tua casa diventa “spaesante” e lo “spaesante” è nella tua casa».
E la xenofobia? La paura che diventa repulsione non è solo comprensibile, ma anche ragionevole. È necessario accoglierla, prendersene cura, attraversarla. Mai negarla. Lì, dove chiama «il Vangelo, esigente e mai buonista – continua il sindaco di Venezia –, il rapporto con il mio prossimo è sempre un travaglio per qualcosa da capire e da maturare attraverso la poiesis, il fare, una concretezza di prossimità. Colpisce il carattere prassistico della parabola e del Vangelo tutto. Il samaritano, facendo, dimostra di sapere che il suo prossimo è infinito. Lo ha salvato nella sua perfetta inviolabilità e inconoscibilità».
Si è approssimato per lasciarlo; si è avvicinato fino all’estremo limite; si è unito nella perfetta distinzione. Il samaritano non si con-fonde con il suo prossimo, ma comprende il suo proprio bene. «Non si tratta, allora – conclude Cacciari –, di portare ad un livello di uguaglianza, perché l’uguaglianza genera invidia e l’invidia conduce al possesso. Nella verità della relazione non esiste uguaglianza, ma solo prossimità. L’errore di oggi è la mancanza di distanza e di distinzione: il prossimo è vicino e inafferrabile».
La sua conoscenza rimane sempre approssimativa, come quella di Dio. Cos’è Dio? Sconosciuto ma pieno di qualità è il volto del cielo, direbbe Kant. A lui ci si dona nel volto del prossimo.