Prossimità globale

L’emergenza sanitaria sollecita a rivedere il generale modello di sviluppo capitalistico, a correggere i difetti del multilateralismo, ad affermare una nuova coscienza per la cura della Terra. Gli scenari del cambiamento indicano la connessione fra salute globale e sicurezza mondiale, fra opinione, poteri e tutela della salute pubblica, al fine di configurare i contorni di una democrazia capace, in grado di coniugare competenza e rappresentanza. Da Nuova Umanità n. 239

Previsione e lungimiranza

L’alto costo in vite umane del Covid-19 è un bilancio molto pesante da registrare per l’avvio della terza decade del XXI secolo. È un’umanità profondamente ferita quella che si accinge a ricostruire il tessuto lacerato delle relazioni familiari, sociali, economiche, politiche.

La pandemia è stata certamente un evento imprevedibile nei tempi e nella portata, ma non certo in quanto fenomeno drammatico transnazionale e pervasivo. C’è infatti una differenza di fondo tra predizione e prevenzione, ed è quella che passa tra capacità divinatoria e responsabile preparazione[1]. Come scriveva Camus nel romanzo La Peste, «i flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati»[2].

Il World Economic Forum, nel suo rapporto annuale sui rischi globali a lungo termine, pubblicato il 15 gennaio 2020, non contemplava il rischio di una pandemia, in termini di probabilità (likelihood), tra i dieci possibili eventi catastrofici, e in ogni caso la collocava all’ultimo posto in termini di gravità delle conseguenze (impact)[3]. Per il 2020, e a ragione, la maggiore preoccupazione, tra i leader del mondo degli affari e tra gli attori socio-politici più influenti, era costituita dal rischio ambientale[4].

Al contrario, nel rapporto A world at risk del Global Preparedness Monitoring Board, una pandemia «altamente letale e in rapida diffusione prodotta da un agente patogeno delle vie respiratorie» era descritta come una minaccia reale, aggravata dal fatto che le tecnologie in uso per la produzione dei vaccini anti-influenzali sono rimaste sostanzialmente inalterate dagli anni ’60 del secolo scorso, a motivo dei costi alti per la ricerca e lo sviluppo e del lungo tempo richiesto per l’elaborazione, comprese le sperimentazioni[5].

Dunque, è mancata non solo e non tanto la capacità previsionale (immaginare gli effetti devastanti di una pandemia non solo per la popolazione, ma anche per l’economia, la società, la cultura), ma la lungimiranza, l’intelligenza di comprendere che la migliore risposta alle crisi deve essere data prima che esse sorgano, nella normalità delle scelte di politica economica, nei bilanci pubblici, nelle linee di azione della politica internazionale e nei programmi delle istituzioni multilaterali.

Come saggiamente osservava Ulrich Beck già un decennio or sono, chi promuove la giustizia sociale non deve temere un assalto alle casse nazionali dell’assistenza sociale. Chi si batte con energia contro i problemi ecologici potrà risparmiare sui costi delle cure mediche. Chi attua una regolazione dei rischi della tecnica non sarà più costretto a correre dietro agli sviluppi tecnologici con una politica ed una ricerca che intervengono, a costi elevatissimi, per rimediare a un danno già compiuto. Chi obbliga la scienza a riconoscere per tempo le proprie conseguenze non sarà costretto a pagare indennizzi una volta che queste conseguenze ci abbiano colpito[6].

Ancoraggi

Il discorso pubblico post-pandemico è stato, talvolta, ottimisticamente “palingenetico”, nutrendo la speranza che la prima vera crisi letteralmente globale del XXI secolo possa aprire la strada alla riconsiderazione generale del modello di sviluppo (capitalistico), alla riforma profonda del multilateralismo (la cooperazione internazionale classica) e all’avvento di una nuova responsabilità globale, “dal civismo alla cura per il pianeta terra”[7]. Non è affatto certo che queste speranze troveranno una concreta realizzazione, ma è certo che gli effetti della pandemia saranno profondi, duraturi, strutturali. È anche un fatto che «per la prima volta la crisi è extra-sistemica; ma non è detto che il capitale non saprà trarne profitto. Se nulla sarà come prima, tutto potrebbe precipitare nell’irreparabile. Il freno è tirato – il resto tocca a noi»[8].

Il cambiamento accadde, benché in circostanze tragiche, dopo la grande peste del 1347-1348, la quale creò un nuovo sistema demografico ed economico, nuovi modi di pensare, e che vide fiorire, tra l’altro, molte prestigiose università nazionali in un’Europa ove viaggiare, per gli studenti, era divenuto rischioso[9]. Sul versante negativo, quanto alle conseguenze sociali, dobbiamo ricordare che gli amerindi furono in buona misura decimati dalle infezioni portate dagli esploratori e dai conquistatori: «Le malattie che nel Vecchio Mondo erano fatali lo diventavano ancor di più nel Nuovo, mentre quelle che nel Vecchio Mondo erano relativamente benigne diventavano maligne nel Nuovo» L’influenza spagnola del 1918 che, pur offuscata dalla prima guerra mondiale, uccise milioni di persone (tra cui un intellettuale del calibro di Max Weber) trasformò il modo di concepire la medicina, l’organizzazione socio-sanitaria, la capacità di risposta dei sistemi politici[11].

Per quanto riguarda la politica internazionale, Vittorio Emanuele Parsi ha scritto che potremmo trovarci di fronte a tre scenari molto diversi, che egli definisce – utilizzando la storia come riferimento – la Restaurazione (il ritorno, con qualche modifica, alla situazione pre-pandemica, con il dominio, ad esempio, della finanza globale e delle potenze economicamente e militarmente più forti), la fine dell’Impero Romano d’Occidente (il tramonto dell’egemonia euro-americana e un nuovo ruolo della Cina e di altri Paesi emergenti in un mondo sempre più frammentato), oppure il Rinascimento (cioè una nuova civilizzazione più centrata sull’uomo, sui bisogni, sulle politiche pubbliche intese come politiche sociali e politiche, in senso lato, della cura). È, quest’ultimo, uno «scenario che immagina una ricostruzione che parta dalla presa d’atto della vulnerabilità umana, dal riconoscimento della sua centralità e ineluttabilità, e inizi a sostituire l’interdipendenza delle cose con l’interdipendenza degli esseri umani»

Più centrati sulle declinazioni della diseguaglianza sono gli scenari prospettati da Fabrizio Barca e Patrizia Luongo[13] che intravedono tre diverse opzioni strategiche. La prima, “normalità e progresso”, consiste nella “normalità” dell’ultimo quarantennio con più attenzione alle disuguaglianze, promettendo digitalizzazione e semplificazioni, ma in sostanza inibendo le potenzialità discrezionali del “pubblico”, e mettendo tra parentesi la partecipazione strategica del lavoro e della società civile. La seconda opzione, “sicurezza e identità”, mette sul piatto uno Stato accentrato e autoritario, unilateralmente decisionista, impegnato a evitare contaminazioni, combattere presunti nemici ed erigere barriere a difesa di comunità chiuse, anche a costo di ridurre le libertà. La terza opzione, quella della “giustizia sociale e ambientale”, modifica gli equilibri di potere e i dispositivi che producono le disuguaglianze, creando spazi di confronto “acceso, aperto e informato” con un ruolo accentuato del lavoro innovativo e di qualità e una società civile forte e profilata, in sintonia con l’ecosistema.

Ironica la diagnosi di Žižek, il quale ritiene, con il consueto stile iperbolico, che «bisognerà ricorrere a misure comuniste per combattere una malattia che è esplosa in un Paese governato da un partito comunista»[14].

Senza l’ambizione di esaurire in poche righe la trattazione delle immense tematiche legate alla nostra exit strategy dalla pandemia, propongo, da parte mia, alcuni ancoraggi per la riconsiderazione e riconcettualizzazione di argomenti cruciali per la ripresa.

Politica “alta” e sicurezza umana

In primo luogo, la connessione tra la salute globale e la sicurezza mondiale. In politica internazionale vige da tempo la distinzione tra “politica alta” (high politics) e “politica bassa” (low politics). La politica alta riguarderebbe la sicurezza nel senso della difesa tradizionale degli Stati, l’integrità territoriale e la preservazione dell’indipendenza, oltre che l’economia e il commercio. La politica bassa concernerebbe tutte le questioni di rilievo internazionale ritenute “derivate”, come il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, l’istruzione, e tutte quelle tematiche che rientrano nella definizione ampia di “sviluppo umano”.  La pandemia ha dimostrato, una volta di più, che questa suddivisione della politica è del tutto arbitraria ed è in ogni caso superata dalla circostanza che, ad esempio, le infezioni pandemiche rappresentano contemporaneamente una minaccia diretta all’economia globale, alla sicurezza degli Stati e alla sicurezza umana.

In particolare, un approccio alla politica estera fondato prevalentemente sulla potenza e talvolta sulla prepotenza non solo non è in grado di rispondere ai vari “cigni neri”[15] che fanno di tanto in tanto la loro irruzione sulla scena mondiale, ma addirittura complica la possibilità di fronteggiare tali criticità, non fosse altro per la semplice ragione che le spese o gli sperperi fatti nell’illusione securitaria militare finiscono per sottrarre risorse preziose alle politiche di prevenzione. La spesa militare mondiale si mantiene su livelli elevatissimi: secondo il Sipri, ha raggiunto i 1.917 miliardi di dollari nel 2019, con un aumento del 3,6 per cento rispetto al 2018, rappresentando l’incremento annuale più elevato dal 2010[16]. È un tema che non può essere disgiunto dalla riconfigurazione delle priorità internazionali. Un reale cambiamento di rotta implica, per dirla con uno slogan, la transizione dall’international warfare (uno stato di belligeranza o di competizione strisciante) al global welfare (il benessere mondiale).

Democrazia capace

In secondo luogo, la crisi pandemica è diventata, quasi naturalmente, una crisi politica, o, meglio, una tensione nella democrazia. Si sono riproposte questioni fondamentali, come il rapporto tra epistéme e nómos, tra la scienza e le leggi, tra accademici e politici, tra conoscenza e potere. Un dibattito antico, che ha acquistato, di recente, una nuova attualità. Vi sono tesi francamente inaccettabili, come quella avanzata da Jason Brennan, che propone – a suo dire – di “migliorare” (in realtà, ridurre) la democrazia rappresentativa addirittura superando il suffragio universale (faticosa conquista storica) con un “governo dei competenti” (epistocrazia)[17], formato ammettendo al voto solo quanti siano in grado di dimostrare di essere sufficientemente informati su chi ha governato, sulle scelte di policy compiute, sulle possibili opzioni politiche e di governo e sui loro effetti probabili. Uno svilimento della politica a mera tecnica di governo!

Più seriamente, la necessità di decidere per preservare la salute pubblica, da una parte, e l’esigenza di tutelare i diritti civili e politici, dall’altra, sono entrate in una contraddizione che è venuta assumendo, passato il momento acuto della pandemia, connotati fortemente polemici. Più in generale, si pone il problema di come le democrazie possano affrontare shock “simmetrici” (che colpiscono egualmente tutti i Paesi, che tuttavia rispondono in modo asimmetrico) e imprevedibili senza snaturarsi e senza diventare, come si dice in politologia, delle democrature, cioè sistemi politici meno rispettosi dei diritti dei cittadini e delle regole.

Si è parlato, ad esempio, del pericolo di una “deriva esecutiva”, con governi che operano per decreto, nell’impossibilità di convocare fisicamente i Parlamenti per ragioni precauzionali. Bisogna fare attenzione, tuttavia, a non confondere lo stato di emergenza, il quale serve a governare in modo più decisionista in periodi di crisi acuta, ma senza stravolgere il sistema costituzionale, con lo stato di eccezione, il quale invece sospende l’ordine costituzionale.

Rispetto a queste sfide, le due questioni di fondo sono, da una parte, quanta sicurezza consideriamo sufficiente, dal momento che in un mondo globalizzato non vi può essere una certezza di protezione assoluta, e, dall’altra, cosa siamo disposti a sacrificare per ottenere il livello di sicurezza desiderato, dal momento che ciò comporta pesanti costi economici e la limitazione dei nostri diritti e della nostra libertà[18].

A questo riguardo, c’è una differenza di fondo tra una democrazia securitaria e la sicurezza democratica[19]. Nel primo caso, con il pretesto del controllo totale delle variabili suscettibili di accrescere il tragico bilancio del contagio, le tendenze illiberali e populiste sono propense, come abbiamo constatato in diversi casi, a mettere tra parentesi la stessa democrazia. In altri contesti, le stesse forze manifestano un chiaro orientamento a relativizzare l’opinione scientifica a favore della doxa, cioè dell’opinione diffusa, che tende invece a privilegiare le ragioni della produzione, del consumo, del reddito nazionale anche a costo di pagare un prezzo elevato in termini di salute pubblica. Non è necessariamente una posizione cinica, perché il ragionamento su cui si fonda è che senza un’economia in salute è ben difficile che i cittadini lo restino a lungo.

Nel caso della sicurezza democratica, invece, la questione dell’incolumità dei cittadini (e dei residenti in generale) è vista come il fine principale, anche a costo di sacrificare alcuni punti del prodotto interno lordo, sulla base della convinzione che la prima misura “economica” strutturale è lo stato della salute pubblica. Si potrebbe anzi sostenere che proprio l’economicismo amorale, che si nutre di irresponsabilità verso la società e verso l’ambiente, sia una delle concause dell’esplodere e del diffondersi delle crisi globali, e non solo di quelle di natura sanitaria. Anche in questo caso Ulrich Beck[20] aveva visto giusto, quando segnalava che nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va di pari passo con la produzione sociale di rischi, segnando il passaggio da una logica di distribuzione della ricchezza a una di distribuzione del rischio.

Più in generale, non è più sufficiente una democrazia “decidente”, è necessaria una democrazia “capace”, in grado cioè di trovare l’equilibrio tra competenza e rappresentanza.

In ogni caso, per quanto possa sembrare paradossale, la tutela della salute e, più in generale, della sicurezza umana non può essere perseguita spoliticizzando le scelte strategiche, ma, al contrario, ri-politicizzando questioni solo apparentemente tecniche, rendendole oggetto di dibattito pubblico informato, di impegno sociale, di coinvolgimento decisionale, di partecipazione progettuale e attuativa[21].

L’eco-sistema internazionale

In terzo luogo, si tratta di immaginare una nuova architettura politica, un nuovo “eco-sistema”, tra la dimensione nazionale, internazionale, transnazionale e multilaterale. Beck[22] indicava la necessità di un superamento dell’alternativa tra cosmopolitismo e nazionalismo, proponendo la distinzione tra “Stato” e “Stato nazionale”. Mentre lo Stato nazionale è inadeguato (rifiuto del «nazionalismo metodologico»[23]), non è affatto vero che lo Stato in quanto tale lo sia. Beck parla di «auto-trasformazione cosmopolitica dello Stato»[24], di «Stato cosmopolitico»[25], di «transnazionalizzazione degli Stati»[26]. Lo Stato non sarebbe costretto a scegliere tra «neo-liberalizzazione» e «neo-nazionalizzazione»[27], ma dovrebbe utilizzare il potere politico della transnazionalità e mettere in atto una «trans-sovranità cooperativa»[28].

Solo la trasformazione dello Stato in senso “cosmopolitico” – non il suo dissolvimento – può davvero consentire di regolare preventivamente e in modo razionale i problemi nazionali, che trovano ormai quasi nella loro totalità la loro fonte in questioni mondiali. Paradossalmente, «l’unico modo di rivitalizzare la politica nazionale consiste nel denazionalizzarla»[29].

Come passo intermedio, si può stabilire un’analogia con la tesi dell’accorciamento delle “catene del valore economico” affacciatasi nel dibattito internazionale per ridurre l’eccessiva dipendenza da produzioni collocate in spazi geografici troppo distanti (come effetto della delocalizzazione produttiva): solo che nelle relazioni internazionali vige il principio contrario, e cioè evitare l’accorciamento delle “catene del valore politico”, estendendo la partecipazione alla governance mondiale a tutti gli attori, a cominciare dai Paesi più svantaggiati, e includendo anche le voci non-governative, per una co-governance realmente planetaria.

Le nuove minacce transnazionali alla sicurezza nazionale dimostrano che la sovranità nazionale è condizione necessaria ma non sufficiente, e che solo la condivisione politica (cosa ben diversa dalla cooperazione internazionale) può permettere di superare tali enormi criticità. La pandemia ha evidenziato, una volta di più, come gli eventi si presentino sempre più in termini di flussi (finanziari, migratori, climatici, digitali, biologici), quindi come fenomeni che prescindono dai confini territoriali, mentre la politica si ostina a organizzarsi ancora in termini di stock, di quantità finite di territori e di risorse.

Al tempo stesso, e simmetricamente, comprendiamo che i meccanismi tecnici del multilateralismo non sono adatti alle catastrofi. Ciò implicherebbe assegnare maggior fiducia e strumenti incisivi alle istituzioni multilaterali come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che è invece stata trattata alla stregua di un capro espiatorio delle incongruenze nazionali.

L’Oms, istituita nel 1948, è un’istituzione sicuramente imperfetta, ma indubbiamente rappresenta una risorsa per l’umanità in quanto specie: ha permesso di sradicare completamente il vaiolo nel 1979; è attiva, oltre che per il coronavirus, per altre malattie endemiche o pandemiche, come la poliomielite, l’ebola, la meningite, la peste, il virus zika, il colera, l’Aids. Il concetto-guida che anima queste azioni è un approccio integrato alla salute, One Health[30]: una salute unica e unitaria per l’intero pianeta, nelle sue varie declinazioni di esseri umani sani, animali sani, ambiente sano, evidenziando la stretta interrelazione tra questi elementi.

Attualmente, sulla scena mondiale pesano assai più le organizzazioni in senso lato amplificatrici dei contenuti della sovranità regaliana (in campo economico-commerciale, come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o l’Organizzazione mondiale del commercio, o come la Nato nell’ambito politico-securitario) rispetto a quelle della sovranità funzionale (oltre all’Oms, mi riferisco a enti come la Fao o l’Unicef).

Una rilegittimazione del sistema politico internazionale passa attraverso la configurazione di un nuovo “patto politico” tra i suoi attori, i suoi agenti, le sue agenzie, il quale consenta un sostanziale riequilibrio tra le istituzioni di potere/sovranità e le istituzioni di solidarietà/cura. In più, c’è un approccio non convenzionale al multilateralismo che vale la pena di approfondire: esso non è concepito solo in termini funzionali e di efficacia, ma paradossalmente anche come “un fine in se stesso”[31]. Ciò non significa tanto che il multilateralismo debba essere “fine a se stesso”, quanto piuttosto che esso è una via obbligata di “socializzazione politica” degli Stati e di cooperazione routinizzata, premessa indispensabile per costruire il consenso sugli obiettivi concreti della governance globale.

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, si tratta di un approccio molto realistico e pragmatico, lontano dall’astratto idealismo internazionalistico. Questa prospettiva è utile per tentare di uscire dal gergalismo del “multilateralismo efficace”, che a me pare un’espressione abusata, e che maschera talvolta un altro intento, e cioè quello o di accantonare, con il pretesto dell’immediata operatività, la difficile strada della ricerca del consenso multilaterale, o di egemonizzare le organizzazioni internazionali a fini nazionali.

Dalla fatalità alla scelta

La macro-politica delle relazioni internazionali, la meso-politica delle società e degli Stati e la micro-politica di persone, famiglie e comunità dovranno imparare a ritrovarsi e a rafforzarsi a vicenda nella cornice politica planetaria. La devastazione degli ambienti naturali, le modificazioni del delicato equilibrio della biosfera, l’impatto delle attività industriali, produttive, urbane sulla biodiversità non sono affatto estranei all’esplodere delle pandemie. Un rapporto di correlazione, se non di diretta causazione, si rinviene in tutte le analisi olistiche del fenomeno. La nuova frontiera che si annuncia è quella delle relazioni internazionali sostenibili. Se è vero che lo scompaginamento prodotto dalla pandemia rischia di ritardare il conseguimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile[32], è vero anche l’inverso, e cioè che proprio il ritardo accumulato dagli Stati nel perseguimento di quegli obiettivi è una concausa acclarata del Covid-19, del suo sorgere e del suo diffondersi incontrollato[33].

In conclusione, se l’impatto della pandemia del 2020 si tradurrà in un processo di civilizzazione riflessiva, cioè in una riconsiderazione dei parametri associativi, produttivi e valoriali su scala mondiale, allora la crisi non sarà passata invano. Se si capirà che ogni politica, per essere realistica, deve essere necessariamente multidimensionale, multilivello, multivettoriale, allora potremo parlare di una lesson learned, di aver fatto tesoro della severa lezione della pandemia. In ogni caso, essa lascia in tutti, specie tra gli abitanti più poveri e indifesi di questo pianeta, ma anche presso i cosiddetti “grandi della terra”, una sensazione, fondata ed esperienziale, di un’accresciuta fragilità. Abbiamo sperimentato, in effetti, una condizione di inedita prossimità ben al di là dei dati geografici della vicinanza o lontananza, non per scelta, ma a causa di un agente naturale (il virus) che ci ha costretti, al di là delle sue conseguenze drammatiche, a riumanizzare le nostre esistenze contro tutte le illusioni del “transumano”.  Fare di questa inattesa comunanza una scelta e non una fatalità, trasformandola in prossimità globale, è la sfida e anche l’irrinunciabile progetto di una politica mondiale intergenerazionale, sostenibile, panumana, planetaria.

[1] Un centro studi dell’Unione europea (European Strategy and Policy Analysis System) nel suo ultimo rapporto 2030 distingue tra due parole, in inglese, prediction e foresight, cioè tra previsione e lungimiranza. Cf. European Strategy and Policy Analysis System (ESPAS), Global Trends to 2030. Challenges and choices for Europe, Bruxelles 2019, https://ec.europa.eu/assets/epsc/pages/espas/ESPAS_Report2019.pdf (ultimo accesso 13.07.2020).

[2] A. Camus, La Peste, Bompiani, Milano 2014 [1947], p. 30.

[3] Cf. World Economic Forum, Global Risks 2020: An Unsettled World, https://reports.weforum.org/global-risks-report-2020/chapter-one-risks-landscape/ (ultimo accesso 13.07.2020).

[4] Cf. S. Mercuri (ed.), La gestione dei temi globali nella società internazionale post Covid 19, Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, 23 aprile 2020, https://asvis.it/approfondimenti/208-5468/la-gestione-dei-temi-globali-nella-societa-internazionale-post-covid-19#.XwzTtS12Su4 (ultimo accesso 13.07.2020).

[5] Cf. Global Preparedness Monitoring Board, A world at risk. Annual report on global preparedness for health emergencies, settembre 2019, https://apps.who.int/gpmb/assets/annual_report/GPMB_annualreport_2019.pdf, traduzione dell’Autore (ultimo accesso 14.07.2020).

[6] U. Beck, Potere e contropotere nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 286-287.

[7] Cf. G. Cotturri, Responsabilità globale. Dal civismo alla cura per il pianeta terra, Castelvecchi, Roma 2020.

[8] D. Di Cesare, Virus sovrano?,  Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 9.

[9] Cf. D. Herlihy, The Black Death and the Transformation of the West, Harvard University Press, Cambridge (MS); London (UK), 1997.

[10] A.W. Crosby, Lo scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali del 1492, Einaudi, Torino 1992 [1972].

[11] Cf. L. Spinney, 1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, Marsilio, Venezia 2018.

[12] Cf. V.E. Parsi, Vulnerabili: come la pandemia cambierà il mondo. Tre scenari per la politica internazionale, Piemme, Milano 2020.

[13] Cf. F. Barca – P. Luongo, Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale, Il Mulino, Bologna 2020.

[14] S. Žižek, Virus, Ponte alle Grazie, Firenze 2020, pp. 11-12.

[15] Cf. N.N. Taleb, Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita, Il Saggiatore, Milano 2014.

[16] Cf. N. Tian – A. Kuimova – D.L. da Silva – P.D. Wezeman – S.T. Wezeman, Trends in World Military Expenditure, SIPRI 2020, https://www.sipri.org/sites/default/files/2020-04/fs_2020_04_milex_0_0.pdf.

[17] Cf. J. Brennan, Contro la democrazia, LUISS University Press, Roma 2018.

[18] Cf. S. Rushton, Security and Public Health, Polity, Cambridge (UK); Medford (MA), 2019, p. 3.

[19] Cf. P. Ferrara, Lo stato preventivo. Democrazia securitaria e sicurezza democratica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.

[20] Cf. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000, p. 25.

[21] Cf. S. Rushton, Security and Public Health, cit., p. 185.

[22] Cf. U. Beck, Potere e contropotere nell’età globale, cit.

[23] Ibid., p. 8.

[24] Ibid., p. 12.

[25] Ibid.

[26] Ibid., p. 13.

[27] Ibid., p. 218.

[28] Ibid., p. 219.

[29] Ibid., p. 226 (corsivo nel testo).

[30] Cf. OMS, One Health, 21 settembre 2017, https://www.who.int/news-room/q-a-detail/one-health (ultimo accesso 13.07.2017).

[31] Cf. V. Pouliot, Multilateralism as an End in Itself, in «International Studies Perspectives», 12 (2011), pp. 18-26.

[32] Cf. United Nations, Shared responsibility, global solidarity: responding to the socio-economic impacts of COVID-19, New York, marzo 2020, https://unsdg.un.org/sites/default/files/2020-03/SG-Report-Socio-Economic-Impact-of-Covid19.pdf (ultimo accesso 14.07.2020).

[33] Cf. S. Mercuri (ed.), La gestione dei temi globali nella società internazionale post Covid 19, cit.

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