Prospettive per il nuovo Parlamento europeo

Qualcosa si sta muovendo, anche grazie alle proteste – più che le proposte – degli euroscettici, per orientare il prossimo Parlamento europee verso posizioni più vicine ai bisogni dei cittadini europei.
Aldama/picture-alliance/dpa/AP Images

Prendo spunto dal un commento del lettore Cesare Ciancianaini a un mio precedente articolo, che giustamente osserva che “non esiste una sola possibilità di Europa” e ritiene che gli euroscettici siano soprattutto critici nei confronti di “questa” Unione europea e non del progetto di integrazione europea in quanto tale.

È un tema cruciale che ci guiderà nella scelta del 26 maggio: quale Europa vogliamo? Come contribuire con il nostro voto a indirizzare l’Unione europea verso il modello che auspichiamo?

Per cambiare l’Ue servono un progetto e i numeri per tradurre questo progetto in realtà.

Quanto al progetto, gli euroscettici non ne hanno uno condiviso. Sui migranti, la Lega vorrebbe l’addio al principio della responsabilità per il trattamento delle domande di asilo da parte dello Stato di primo ingresso e la ricollocazione dei rifugiati negli altri Stati Ue; gli altri euroscettici (della sua famiglia politica: Rassemblement national, Alternative für Deutschland, o di altre: Fidesz; Diritto e Giustizia) vogliono il contrario ; sui conti pubblici, Salvini auspica maggiore flessibilità, gli euroscettici del nord Europa maggior rigore. E così via, senza parlare dei temi, come il cambiamento climatico, le relazioni commerciali, la tassazione, che non figurano tra le priorità nell’agenda degli euroscettici.

Il progetto di integrazione europea, come si è andato sviluppando, è il frutto delle scelte, in Commissione – che propone – e in Parlamento europeo e in seno al Consiglio (dove siedono i governi degli Stati membri) – che decidono – di rappresentanti delle tre grandi famiglie politiche tradizionali: popolari (con Forza Italia), socialisti (con il Partito Democratico) e liberali (privi di rappresentanza in Italia).

Finora, un progetto alternativo di integrazione europea è stato proposto dai verdi (maggiore attenzione alle questioni ambientali) e sinistra (maggiore attenzione alle questioni sociali), senza che, tuttavia, tali famiglie politiche avessero i numeri per tradurre in politiche europee effettive tali orientamenti.

Oggi ci troviamo, a mio avviso, di fronte ad una svolta. I partiti populisti (non solo di destra), esprimono un malcontento reale, nei confronti dei governi nazionali e delle politiche europee. Questo malcontento troverà una maggiore espressione in Parlamento europeo ma non sarà maggioritario.

Eppure qualcosa, forse molto, si muove. La tradizionale alleanza tra popolari e socialisti – che, da soli, hanno sempre avuto la maggioranza sia in Parlamento europeo sia nel Consiglio – potrebbe evolvere verso forme di interazione politica più articolate.

Per la prima volta non sono solo i verdi e la sinistra a proporre un deciso cambiamento delle politiche europee, ma lo Spitzenkandidat dei socialisti, Frans Timmermans. La sua proposta di un’alleanza delle forze di centro-sinistra, da Tsipras a Macron, includendo i verdi e i liberali, per nulla velleitaria, mette in agenda temi diversi dal tradizionale rigore nei conti pubblici e dal completamento del mercato interno: la crisi climatica come prima priorità (con l’accordo di Parigi, ammesso che sia rispettato da tutti, ci sarebbe comunque un aumento della temperatura globale tra il 3 e il 3,2% e sforzi colossali, oggi non previsti neanche in Europa, che è alla punta nella lotta al cambiamento climatico, sono necessari per contenere l’aumento entro il 2%); una tassazione minima delle imprese, a livello Ue, del 18% e, solo oltre questa soglia, la possibilità per gli Stati membri di farsi concorrenza fiscale (per invertire la situazione attuale, in cui una concorrenza fiscale senza freni priva i bilanci nazionali degli Stati Ue di centinaia di miliardi di euro, che rimangono nelle tasche delle multinazionali e dei loro abili consulenti fiscali); un sussidio di disoccupazione europea, complementare ai sistemi nazionali, per garantire un livello minimo di risorse a che perde il lavoro; un controllo delle frontiere esterne, ma umano; il rispetto delle regole europee in materia di deficit e debito pubblico, ma con buon senso (sul modello della Commissione, che si sforza di trovare un accordo – vadasi il dialogo Juncker-Conte lo scorso anno) e non in modo ideologico.

L’eventuale coalizione prospettata da Timmermans non avrà, probabilmente, la maggioranza il Parlamento, ma avrà i numeri per proporre proposte innovative e cercare alleati tra i banchi di Strasburgo.

A questo proposito, il rinvio del Brexit ha rimesso in sella – anche se in modo paradossale – il Movimento 5 Stelle, che ha sinoro fatto fatica a trovare alleati in modo da formare un gruppo nella prossima legislatura. Tanto più che una nuova regola interna, adottata all’ultima plenaria del Pe ad aprile, impone ai futuri eletti di dimostrare una certa omogeneità di vedute tra i partiti nazionali di provenienza per poter formare un gruppo al Parlamento europeo. Con la partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee, l’UKIP, attuale alleato dei 5 Stelle, dovrebbe ottenere una buona rappresentanza. Questo permetterebbe al M5S di formare un gruppo, avere un certo peso nella fase iniziale della nuova legislatura (nomine al Parlamento, nomina del presidente della Commissione), insomma, di esistere. E, in corso di legislatura (anche se i seggi dell’UKIP dovessero sparire in seguito alla Brexit), di votare proposte a lui consone dell’eventuale coalizione di centro-sinistra.

 

Molto potrebbe cambiare nel corso della prossima legislatura, e non necessariamente nel senso di una disgregazione dell’Ue. Dipende anche da noi, e dal nostro voto di domenica.

 

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