A processo a New York ex ministro messicano
Lo strapotere dei cartelli della droga in Messico non è una novità. Si sa dei loro forti legami con la politica, specie a livello locale. Ma ancora molto poco è stato provato sulla protezione di cui i “narcos” possono godere a livello federale. Per questo era molto atteso il processo, iniziato il 17 gennaio a New York, a Genaro García Luna, ex ministro della Pubblica Sicurezza nel governo di Felipe Calderón (2006-2012).
La Corte Federale di Brooklyn accusa Luna di avere ricevuto milioni di dollari dal Cartello di Sinaloa di “el Chapo” Guzmán per facilitare il transito di cocaina verso gli Stati Uniti. L’ex ministro è imputato per associazione a delinquere, cospirazione per traffico di stupefacenti e dichiarazioni false alle autorità statunitensi. Luna si dichiara innocente, e rischia da 10 anni di reclusione all’ergastolo. Da parte sua, l’attuale governo messicano ha iniziato già nel 2021, presso un tribunale di Miami, un’azione legale contro 39 aziende o fondi legati a Garcia Luna, che vive negli Usa, al fine di recuperare circa 700 milioni di dollari.
L’uomo forte della “guerra al narcotraffico”, dichiarata dal governo messicano in quegli anni, potrebbe rivelarsi il principale favoreggiatore dell’organizzazione criminale che doveva affrontare, se non addirittura un suo membro attivo, come sostiene l’accusa. «La persona che doveva condurre la lotta contro il Cartello di Sinaloa era, in realtà, il suo investimento di maggior valore», ha affermato il pm Philip Pilmar.
Uno dei principali testimoni, il primo sentito dalla Corte la scorsa settimana, è un ex poliziotto condannato per narcotraffico negli Usa. Sergio Villarreal Barragán, alias “el Grande”, assicura di aver presenziato più volte a pagamenti all’alto funzionario per conto del cartello. Si sarebbe trattato di veri e propri “stipendi”, anche di 1 milione e mezzo di dollari al mese. Il responsabile sarebbe stato nientemeno che Arturo Beltrán, socio del Cartello di Sinaloa e poi capo di quello dei fratelli Beltrán Leyva. I dirigenti dell’organizzazione si riferivano all’accusato come “el Compa” (diminutivo familiare per il collega o il compagno) o “el Tartamudo” (il balbuziente). Barragán “el Grande” (è alto due metri) ha dichiarato che García Luna informava l’organizzazione sui movimenti dei cartelli rivali e che trasferiva capi della polizia “problematici”. Avrebbe inoltre ricevuto compensi sin da quando era direttore dell’Agenzia federale di Investigazione (2001-2005) e finché Arturo Beltrán visse (fu ucciso nel 2009). Con l’aiuto di García Luna «il cartello è cresciuto in territorio e in volume di droga ed ha eliminato i suoi nemici». Il capo della sicurezza nazionale sarebbe arrivato perfino a mettere in scena falsi sequestri di cocaina (in realtà, una miscela di zucchero, farina, acetone, etere e anice), a fornire veicoli e uniformi ai criminali e a organizzare operazioni congiunte.
Tutte falsità, secondo la difesa, che nega l’esistenza di prove contro il suo assistito, vittima di chi si vorrebbe vendicare a suon di false testimonianze dopo aver ricevuto sconti di pena per collaborare con la giustizia.
La vicenda è venuta a galla nel corso del processo conclusosi con l’ergastolo a Joaquín “el Chapo” Guzmán, condannato dallo stesso tribunale.
Da modesto facchino del creatore dell’impero della droga in Messico – Miguel Angel Félix Gallardo, che ha elevato il narcotraffico al livello di una potentissima multinazionale –, el Chapo ne è stato in qualche modo il successore, alla guida del Cartello di Sinaloa dopo la rottura dei rapporti tra gruppi precedentemente associati.
La violenza della rivalità esplosa in seguito portò a un’escalation di morte che ha fatto del Messico uno dei Paesi con maggiore indice di omicidi al mondo.
I successivi governi federali hanno affrontato la questione sicurezza con mano dura, in risposta alle crescenti proteste della cittadinanza. Le complessità di un Paese gigantesco, con enormi distanze tra la capitale e stati federati dalle economie molto dissimili, via obbligata di transito tra Paesi sudamericani produttori di cocaina e il principale consumatore mondiale (gli Usa) hanno reso molto arduo affrontare organizzazioni criminali molto strutturate, che dispongono di risorse in grado di corrompere funzionari pubblici mal pagati, comprare protezioni, impunità e armi di ultima generazione e imporre il loro controllo in aree depresse e con poca presenza dello Stato.
Con il presidente Felipe Calderon iniziò (2006) una guerra aperta e dichiarata al narcotraffico che ha prodotto tra 250 e 350 mila morti in 15 anni e che l’attuale presidente messicano (dal 2018) Andrés Manuel López Obrador ha promesso di terminare. «López Obrador ha stabilito una linea di non confronto diretto con i narcos, che era stata costante nei due governi precedenti (Calderon e Nieto)», ha spiegato alla stampa l’esperto di sicurezza Eduardo Guerrero. «Ha ordinato di vigilare, ma eludere il conflitto. In effetti, gli indicatori mostrano una diminuzione di uccisioni con la partecipazione dell’esercito. Ma il costo – ha concluso Guerrero – è enorme: si sono lasciate a disposizione del crimine vaste porzioni di territorio. Questo col tempo genererà più violenza, perché ci sarà più concorrenza».
La strategia non ha comunque funzionato e il numero delle vittime è in aumento. Non è bastata neppure la creazione della Guardia Nazionale, forza specializzata che dipende dal governo federale e che López Obrador vorrebbe ora passare ai militari. La stessa presenza di soldati per le strade è aumentata e, nelle dichiarazioni presidenziali, si prolungherà a tempo indefinito. Fatto unanimemente criticato dagli analisti della sicurezza, data l’inadeguatezza dell’addestramento dei militari per un compito per il quale non sono preparati. Anche la storica collaborazione con il governo statunitense è ad un punto morto. Una strategia efficace per la deterrenza del fenomeno appare ancora lontana.
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