Processo a Socrate
I turisti diretti all’Acropoli di Atene che salgono la collina di Filopappo lungo un sentiero a tratti lastricato, tra rovine e fitte pinete, non sempre prestano la dovuta attenzione ad uno slargo roccioso con tre grotte intercomunicanti i cui ingressi sono protetti da sbarre di ferro. “Prison of Socrates” recita un cartello, senza fornire altre spiegazioni. Fatto sta che in quelle oscure cavità, secondo una tradizione senza alcun fondamento, l’anziano filosofo avrebbe bevuto la fatale pozione di cicuta.
Di Socrate ci resta almeno qualche ricordo scolastico. Ma quanti di noi si sono chiesti i motivi veri per i quali, nel 399 a. C., la città di Atene condannò a morte uno dei suoi figli più autorevoli? E inoltre quando era ormai settantenne, per qualcosa che aveva fatto durante l’intera esistenza.
Indaga la questione, ricostruendo la celebre vicenda giudiziaria, un agile testo edito da Laterza: Processo a Socrate. L’autore Mario Bonazzi, docente di Storia di filosofia antica presso le Università di Utrecht e di Milano, ci trasferisce nell’Atene del V secolo a.C., città-Stato dove il popolo partecipava alle elezioni, c’erano tribunali e giudici, e la prigione rappresentava solo un preliminare alla pena capitale o corporale.
Socrate vi era nato, sembra, nel 469 a. C., da famiglia benestante: il padre era scultore, la madre levatrice. Tra le poche le notizie biografiche, sappiamo che si fece onore nella Guerra del Peloponneso che vide Atene contro la tradizionale rivale, Sparta; e v’è pure incertezza intorno al suo pensiero filosofico, dato che non lasciò nulla di scritto e quello che ci è stato tramandato è un’interpretazione dei discepoli, primi fra tutti Platone e Senofonte. Quanto all’aspetto fisico, Platone, che lo conobbe già avanti negli anni, lo descrive come un uomo piuttosto brutto, simile a un satiro, ma estremamente buono e disponibile verso chiunque incontrasse principalmente nell’Agorà, il vero cuore pulsante di Atene.
Ci informa al riguardo Senofonte: «Viveva sempre sotto gli occhi di tutti. Al mattino si recava infatti nei portici e nei ginnasi, e quando l’Agorà era piena di gente, si poteva vederlo là, e per tutto il resto della giornata si trovava dove avrebbe incontrato più gente possibile. Per la maggior parte del tempo parlava e a chi lo desiderava era possibile ascoltarlo».
Osserva l’autore: «In anni terribili, segnati da violentissimi odi politici e personali, Socrate è uno dei pochi ad aver tentato di opporsi a questa deriva. Non ci è riuscito, ma non per questo la sua lezione morale e intellettuale va considerata meno importante. Non ha voluto imporre ai suoi interlocutori le sue idee, non ha preteso di insegnar loro cosa dovevano pensare. Ha cercato di insegnare come pensare per affrontare i problemi».
Questo personaggio chiaramente scomodo per le sue simpatie oligarchiche e già messo in berlina da Aristofane fu accusato di corrompere i giovani e fomentare il disordine sociale con le dottrine da lui professate, di non credere negli dei della città e di averne introdotti di nuovi. In attesa di giudizio, venne rinchiuso nel carcere del Pritaneo annesso al tribunale: in origine, un edificio pubblico sede del primo magistrato, dove veniva custodito il focolare sacro della città e potevano essere accolti ospiti di particolare riguardo o cittadini benemeriti.
Durante il processo l’accusa, rappresentata da un certo Meleto, sollecitò la condanna a morte; a sua volta Socrate, cui sarebbe bastato chiedere l’esilio per aver salva la vita, chiese il mantenimento a vita nel Pritaneo a spese dello Stato, oppure il pagamento di una multa. Il senso di questa provocazione? Riteneva la sua indagine come filosofo, per quanto condotta in sedi diverse da quelle della politica istituzionale, un’attività di valore pubblico e non privato. Infatti quale democrazia era quella incapace di fondarsi sulla ricerca e sul confronto delle idee, metodo appunto della filosofia? Inevitabile la condanna alla pena capitale mediante l’assunzione di cicuta, un potente veleno il cui alto costo, fra l’altro, veniva addebitato al morituro.
Pur sapendo di aver subìto un’ingiustizia, Socrate rifiutò fino all’ultimo le proposte di fuga dei discepoli. La sua morte, che si direbbe cercata, ci viene descritta in dettaglio da Platone nel Fedone. Socrate trascorse serenamente la sua ultima giornata in compagnia di amici e discepoli, dialogando di filosofia secondo il suo solito; in particolare affrontò il problema dell’immortalità dell’anima e del destino dell’uomo nell’aldilà. Quindi fece un bagno, si congedò dai tre figlioletti e dalle donne di casa e s’informò presso il boia su come regolarsi nell’assumere il veleno. Infine, dopo aver pregato la divinità di assisterlo durante il trapasso, bevve senza esitare la cicuta. La morte sopraggiunse lentamente, raffreddando piedi, gambe, torace e il resto, tra la disperazione dei presenti, ai quali peraltro lui stesso dovette fare coraggio.
Il commento di Bonazzi: «La coerenza ha un prezzo, che Socrate decise di pagare, dando prova una volta di più della sua grandezza d’animo. La strategia, del resto, sulla lunga durata si è rivelata vincente, visto che sul banco degli imputati è ormai finita Atene, la città democratica colpevole di aver condannato ingiustamente il suo cittadino migliore. Pretendeva di essere il luogo della libertà, si è rivelata schiava di pregiudizi e luoghi comuni, incapace di ascoltare la voce di chi era davvero libero. Nonostante qualche sporadico tentativo di dimostrare il contrario, alla fine ha vinto Socrate».
Domanda fondamentale del volume è: «Davvero filosofia e democrazia non sono compatibili? Davvero i luoghi in cui si esercita il potere della democrazia – le assemblee, i tribunali – sono impermeabili ai ragionamenti della filosofia? Quando è fatta bene, la filosofia è una pratica che aiuta a liberarsi dei pregiudizi che impediscono di comprendere la realtà nella sua complessità; è una disciplina che insegna ad affrontare i problemi con la forza della propria intelligenza. Tra tutti Socrate è stato uno degli esempi più luminosi di quello che è e può essere la filosofia, della sua importanza e della sua utilità per tutti».
Al grande pensatore tuttavia l’autore non risparmia un appunto: «Ma quale è il valore di un sapere che non riesce a farsi comprendere dagli altri? Vista in questa prospettiva la vicenda del processo (e non solo del processo, perché fu tutta la vita del filosofo Socrate a essere giudicata) è la storia di un doppio fallimento – del fallimento della democrazia, incapace di ascoltare il tafano che cercava di risvegliarla dal torpore dei suoi pregiudizi; ma forse anche del fallimento del filosofo, incapace di trovare le parole giuste per far capire le sue ragioni. O non poteva che essere così? Platone non ha smesso di interrogarsi su questa domanda, cercando di trovare una soluzione; e di una soluzione siamo in cerca anche noi, oggi. Per questo è così importante occuparsi del processo di Socrate».