Processi lenti e articolo 18
Dichiarazioni e smentite accompagnano regolarmente la questione dell’articolo 18 della legge 300 del 1970, meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”, che prevede la possibilità, per il lavoratore dipendente ingiustamente licenziato, non solo di ricevere un’indennità o un risarcimento, ma di essere reintegrato sul posto di lavoro. I collaboratori a progetto, e comunque l’esercito dei precari, sono ovviamente tagliati fuori da questa norma, che non si applica, tra l’altro, agli assunti nelle aziende con meno di 15 dipendenti.
Emblematica la causa dei tre lavoratori della Fiat di Melfi, licenziati con l’accusa di sabotaggio e reintegrati ultimamente con una nuova sentenza di appello. La multinazionale, come già in precedenza, ha comunque negato l’accesso agli operai in fabbrica, che sono così esentati dal prestare lavoro pur percependo lo stipendio. Coerentemente con questa condotta, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha rilasciato una lunghissima intervista al Corriere della Sera, per chiedere anche la rimozione dell’articolo 18, definito un’anomalia tutta italiana.
Abbiamo sentito sulla questione il magistrato Giovanni Caso, ricorrendo alla sua quarantennale esperienza di giudice, che lo ha portato fino alla carica di presidente della Corte di Cassazione.
Secondo alcuni esperti, sono i tempi lunghissimi del processo del lavoro, nei casi di reintegro per l’articolo 18 dello Statuto, a disincentivare le imprese ad assumere. Cosa ne pensa?
«Una lunga attesa dell’esito del giudizio certamente crea incertezza e difficoltà, sia per il lavoratore che per l’imprenditore. Tuttavia, non sembra esatto che questo inconveniente, unitamente alla possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro, costituisca il motivo determinante per non investire e non assumere. Bisogna, infatti, tener conto del fatto che il licenziamento per motivi oggettivi, economici (cioè per riduzione della produzione o per sopravvenuto esubero del personale), è già ammesso dalla legge, e questa è la garanzia che dovrebbe interessare agli imprenditori».
E allora dove si può ritrovare il problema?
«La questione riguarda, invece, i licenziamenti soggettivi, senza giustificato motivo (sarebbe più preciso dire i licenziamenti per motivi giusti, cioè addebitabili al comportamento del lavoratore), e i licenziamenti discriminatori. Questi ultimi sono nulli, e su questo non c’è discussione. I licenziamenti senza giustificato motivo sono impugnabili in sede giudiziaria dal lavoratore che contesta l’esistenza del giusto motivo. Se il processo si conclude in senso favorevole al lavoratore – cioè, manca il giustificato motivo del licenziamento – il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nell’azienda. E questo può accadere a distanza di anni. Tutta la questione sull’art. 18 ruota sul fatto della reintegrazione del lavoratore e sull’incertezza dei tempi di essa. Ma, forse, il motivo vero, più profondo, sta nell’affermazione della libertà del datore di lavoro di assumere e di licenziare, a cui, però, si contrappone l’interesse del lavoratore di conservare il proprio lavoro».
Cosa accade nelle imprese nelle quali non si applica l’articolo 18?
«C’è la legge n. 604 del 1966 che è fondamentale in materia perché, prima dello Statuto, prevedeva una tutela contro il licenziamento senza giustificato motivo. In questo caso, il datore di lavoro era obbligato alternativamente o a riassumere il lavoratore o a pagargli una determinata indennità. Questa disciplina si applica tuttora per i licenziamenti in aziende che non superano i quindici lavoratori. Quindi, la novità portata dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori riguarda le aziende che superano i 15 dipendenti. Tale novità, come si è detto, consiste nel diritto del lavoratore ingiustamente licenziato di essere reintegrato».
A suo giudizio, esiste la possibilità di introdurre procedure d’urgenza in caso di giudizio su licenziamento? E quali sono gli ostacoli attuali?
«L’attuale processo di lavoro, che si svolge davanti al giudice, già prevede termini brevi; tuttavia, non possono essere osservati per il notevole carico di lavoro che grava sui giudici. D’altra parte, trattandosi di un processo basato sulla contesa tra datore di lavoro e lavoratore, la definizione giudiziaria della stessa, che dà ragione a una parte e torto all’altra, difficilmente è accettata di buon grado dalla parte sconfitta. Pertanto, oltre all’eventualità di introdurre procedure d’urgenza davanti al giudice per accertare, anche in via solo provvisoria, la fondatezza del licenziamento, in mancanza della quale scatterebbe l’obbligo immediato di reintegro, forse è opportuno pensare anche a soluzioni alternative di tipo mediativo o a mezzo arbitrato».
Ma non sono soluzioni già previste?
«È vero, la conciliazione e l’arbitrato sono già previsti dall’attuale ordinamento. Il tentativo di conciliazione è obbligatorio e va espletato davanti all’apposita commissione di conciliazione. È una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria. Solo che l’arbitrato attualmente è facoltativo e consensuale (cioè, chiesto d’accordo dalle due parti: lavoratore e datore di lavoro). Forse un’importante modifica potrebbe essere costituita dal rendere obbligatorio l’arbitrato. La legge dovrebbe stabilire un termine breve per la decisione da parte del collegio arbitrale e dovrebbe rendere immediatamente esecutiva tale decisione riguardo alla reintegrazione, sia che essa venga accolta sia che venga respinta».
Come ha vissuto da magistrato l’introduzione dello Statuto dei lavoratori nell’'ordinamento italiano?
«Benché come magistrato non abbia mai trattato processi di lavoro, ricordo che, quando nel 1970 è entrato in vigore lo Statuto dei lavoratori, l’evento fu celebrato con molta enfasi dal sindacato e dai partiti di sinistra. In particolare da parte del partito socialista che allora era al governo: il ministro della Giustizia andò in tutte le sedi giudiziarie per raccomandare che ci fosse un numero sufficiente di magistrati che si occupasse di questi nuovi processi. Lo Statuto dei lavoratori è certamente nato nel clima di grande conflittualità sociale proprio di quel periodo. Penso che oggi si dovrebbe risolvere la questione nel pieno reciproco rispetto tra lavoratore e datore di lavoro, sapendo che ci sono due fondamentali interessi da salvaguardare: quello dell’impresa in ordine all’idoneità del personale lavoro, e quello dei lavoratori al mantenimento del posto di lavoro, soprattutto se esso dura già da tempo».