Processi generativi di dialogo e riflessioni sulla pace
Alla fine della scorsa settimana ho avuto la fortuna di partecipare a due eventi molto significativi, anche se assai diversi sia nella prospettiva che nel contesto.
Il primo si è svolto presso la Sala della Regina, all’interno del Palazzo di Montecitorio, a pochi passi dalla Camera dei Deputati, il secondo è stato un webinar con la partecipazione di 170 persone, principalmente dall’Europa (sia dell’Est che dell’Ovest, come pure del Nord, del Sud e Centrale), ma con significative rappresentanze da Filippine, Indonesia, India, Pakistan, Thailandia e Algeria.
L’evento alla Camera dei Deputati è stato organizzato nell’ambito di consultazioni che da una quindicina d’anni, l’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) organizza insieme al Ministero degli Esteri italiano e ad altri partners (quest’anno erano l’University of Notre Dame, negli Usa, e la Comunità di Sant’Egidio). Si è trattato di una riflessione su un tema di assoluta attualità: Religion, Confict and Peacebuilding in Contemporary Global Crises (Religione, conflitto e costruzione della pace nelle crisi globali contemporanee). Il secondo programma, il giorno seguente, è stato un webinar tenuto come parte di un progetto chiamato DialogUE, che coinvolge cristiani e musulmani con persone diversamente o non credenti del continente europeo. Il titolo questa volta era Connecting with Others. Practicing the Art of Dialoguing (Collegamento con gli altri. Praticare l’arte del dialogo). Questi due momenti, sebbene separati nei rispettivi processi organizzativi e di realizzazione, mi hanno suggerito alcune considerazioni. Mi sono, infatti, ancora una volta confermato nell’impressione che ho maturato da tempo: la trasversalità della presenza religiosa che sempre più si fa sentire all’interno dei processi di pace, di prevenzione o soluzione dei conflitti, e di dialogo in generale. L’elemento religioso è sempre più protagonista all’interno di tutto questo.
Presso Montecitorio si è proposta una riflessione altamente qualificata a livello accademico, diplomatico e intellettuale di quanto da alcuni decenni, quasi senza che il mondo (soprattutto quello occidentale) se ne sia reso conto, la religione o le religioni rappresentino sempre più un elemento che anche le società laiche o laiciste devono considerare. L’intervento di mons. Paul Gallagher, segretario vaticano per le Relazioni con gli Stati, ha aperto una visione storica sul ruolo che, da quasi due secoli, ha la Chiesa cattolica nei processi di pace. Si tratta di un processo che ha reso la Chiesa sempre più punto di riferimento per il pacifismo mondiale, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo: dalla Pacem in terris all’opera di papa Francesco.
Ma, in un certo senso, più profonda e introspettiva è stata l’analisi del politologo statunitense Scott Appleby, che ha ripercorso gli anni in cui la religione ha fatto un inatteso ritorno in ambito pubblico, grazie, per esempio ed anche se in modo diverso, a figure come papa Giovanni Paolo II e all’ayatollah Khomeini. Entrambi hanno contribuito a riproporre il fattore religioso al centro della vita pubblica, riempiendo le piazze con milioni di fedeli. Ma a questo – ha fatto notare lo studioso americano –, si aggiungono le azioni spesso nascoste e altre volte più evidenti di altri agenti religiosi, come alcuni degli antichi carismi cattolici che lavorano per pace e dialogo (francescani e gesuiti) e movimenti ecclesiali che sono diventati vettori attuali di questa novità. Appleby ha citato i Focolari e Sant’Egidio. Il discorso è continuato, il giorno successivo, in un think thank con una trentina di esperti che hanno approfondito questa riflessione a porte chiuse, cercando di andare a fondo su quanto emerso il giorno prima nel convegno presso il Parlamento italiano.
In sintesi, ci si rende sempre più conto che per decenni nel campo della risoluzione dei conflitti, della mediazione e degli studi sulla pace, si è trascurato il ruolo politico positivo che la religione può svolgere in tutte le fasi di questi processi complessi. Attualmente, ormai, prevale una crescente attenzione al contributo che il peacebuilding religioso può dare, nel mondo, alla stabilità, alla sicurezza e alla giustizia di molte società divise. Agenti religiosi, a cui ho appena accennato, hanno portato e continuano a portare con sé strumenti, idee e approcci innovativi allo studio della risoluzione dei conflitti, anche attraverso l’applicazione politica di ideali religiosi come la riconciliazione, il perdono e la misericordia. Inoltre, sono proprio questi agenti che, spesso in modo silenzioso, danno vita ad un dialogo di fondamentale importanza sul territorio per costruire un tessuto sociale sempre meno diviso e che miri consapevolmente ad una armonizzazione degli elementi di diversità etnica, culturale, linguistica, sociale e religiosa, frequenti origine di tensioni socio-politiche.
Da un lato è ben noto a tutti l’impegno della Comunità di Sant’Egidio nel collaborare ed animare processi di pace e di proporre l’iniziativa dei Corridoi umanitari per assicurare che i migranti possano arrivare in maniera sicura in Europa. Dall’altro, continua un dialogo sul territorio senza il quale sarebbe impensabile arrivare ai livelli di politica e diplomazia internazionale: è ciò che mi ha confermato il webinar di sabato scorso, organizzato dai Focolari, insieme all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) e ad altri enti e associazioni, per una formazione al dialogo. Un progetto che dura da mesi, che coinvolge diverse centinaia di persone, e che sabato scorso ha riflettuto sulla questione delle fake news relative alle religioni e alla conseguente islamofobia che ha invaso l’occidente.
Soprattutto, però sono state le esperienze che sono seguite a dare la speranza che è possibile fare la differenza, come hanno dimostrato belgi, tedeschi, italiani insieme a siriani, turchi, algerini, che hanno mostrato processi di socializzazione fra donne e tra famiglie, progetti educativi fra studenti musulmani e cristiani (o non credenti) e rapporti fra comunità musulmane e cristiane in determinati territori. L’impegno nel locale offre sempre più modelli sostenibili anche per iniziative pubbliche e internazionali sulle quali ormai si riflette anche a livello di politologia e diplomazia.
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