Pro e contro la separazione delle carriere dei magistrati

La riforma voluta dal governo Meloni suscita la forte reazione negativa di una parte dei giudici. Conoscere bene le ragioni a favore e quelle contrarie ad un cambiamento importante nel campo della giustizia
Sit-in di protesta dei magistrati contro la riforma del governo ANSA/MOURAD BALTI TOUATI

Lo scorso 16 gennaio la Camera ha approvato in prima lettura il disegno di legge per la riforma costituzionale sulla giustizia voluta dal governo attuale intitolato “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”.

Il testo della riforma è arrivato in Parlamento dopo lunga e faticata gestazione e dovrà essere approvato nel rispetto delle maggioranze previste dall’articolo 138 della Costituzione, e potrà essere rimesso alla espressione dei cittadini mediante referendum.

La riforma introduce un tema al centro di un vivace dibattito che ruota tutto intorno alla cosiddetta separazione delle carriere, cioè l’introduzione di carriere con concorsi di ammissione diversi e diverse norme interne per i magistrati inquirenti, cioè i pubblici ministeri che conducono le indagini, e quelli giudicanti, ovvero i giudici che emettono le sentenze.

Altre importanti modifiche riguardano poi il Consiglio superiore della magistratura (CSM) e l’istituzione della Alta Corte Disciplinare.

Quanto al primo punto, è noto che nel nostro attuale processo il Pubblico Ministero e il magistrato giudicante fanno parte del medesimo ordine giudiziario, l’uno con funzione requirente, di ricerca della prova, l’altro giudicante, chiamato a valutare se le prove che raccoglie nel corso del processo conducano al giudizio circa la colpevolezza (art. 117 Cost).

In questi ultimi giorni si assiste, da più parti, a prese di posizione tra i sostenitori e non di tale riforma che spesso trascurano una riflessione seria ed argomentata su un tema assai delicato, quale quello della indipendenza della magistratura, da intendersi non già quale privilegio dei magistrati, ma garanzia per i cittadini per un esercizio imparziale della giustizia. Imparziale rispetto alle parti e all’organo esecutivo di direzione politica. Occorre, pertanto, analizzare le diverse posizioni con particolare attenzione al processo penale attuale.

Le ragioni a favore della riforma
I sostenitori ritengono che la riforma non sia più rinviabile in ossequio ai principi di indipendenza ed autonomia della magistratura e del principio del giusto processo. Questi evidenziano che in molti Paesi quali Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Regno Unito, Svizzera, la separazione delle carriere non ha generato alcuna crisi istituzionale. Si evidenzia, inoltre, a sostegno di detta separazione, che proprio perché la funzione del Pubblico Ministero è caratterizzata da un interesse giuridicamente vincolante alla realizzazione della pretesa punitiva, è necessario che il suo ruolo venga rigorosamente separato da quello del Giudice.

Per capire un po’ meglio il senso di questa riforma occorre almeno una volta entrare in un’aula di Giustizia dove, nello scambio tra le parti, avvocato e pubblico ministero, si prova a ricostruire un fatto storico ed accertarne le responsabilità.

È questo il processo accusatorio retto dall’articolo 111 della nostra Carta Costituzionale che già, a seguito dei recenti interventi legislativi e previsioni codicistiche, non vede più quella rigida asimmetria tra accusa e difesa come nel passato.

Si pensi alla previsione codicistica dell’art. 358 del codice di procedura penale che ricorda al PM di svolgere le indagini “anche a favore dell’imputato”, sicché egli non agisce (o non dovrebbe agire) sempre in vista della condanna ma per l’accertamento della verità, anche ove questa contrasti con la sua iniziale tesi accusatoria e si traduce in acquisizioni a favore dell’imputato.

Un serio dibattito tra posizioni contrapposte in tema di separazione delle carriere deve necessariamente tenere conto anche del dato oggettivo legato all’esiguo numero dei magistrati che transitano dalla funzione requirente a quella giudicante, questo anche per effetto della recente riforma Cartabia che ha consentito un solo passaggio tra le due funzioni.

Le ragioni contrarie
La preoccupazione maggiore di buona parte della magistratura  è data dall’istituzione di due CSM: il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente, presieduti entrambi dal presidente della Repubblica (art. 3 del d.d.l., che sostituisce l’art. 104, co. 2 Cost. e art. 1 del d.d.l., di modifica dell’art. 87 della Cost) con componenti laici di nomina parlamentare e togati.

Il rischio, nei fatti, viene sottolineato nella possibilità che tale separazione consenta al Governo, anche mediante i componenti di nomina politica del CSM requirente, un’attrazione del Pubblico Ministero nell’orbita del potere esecutivo, così “indirizzando” il primo nell’esercizio dell’azione penale che resterebbe obbligatoria solo nella norma.

Di contro, c’è chi sostiene che tale pericolo sarebbe definitivamente fugato a seguito della mancata modifica, originariamente prevista, dell’art. 112 della Costituzione per il quale si proponeva di introdurre un temperamento alla obbligatorietà della azione penale, limitandola in base a criteri stabili per legge.

Corollario della separazione delle carriere è anche l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare (art. 4 del d.d.l., che sostituisce l’art. 105 Cost.) che assorbirà le funzioni oggi svolte dal CSM e dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili (in sede di impugnazione) in materia di giurisdizione disciplinare dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti.

Si evidenzia sul punto che è stata accantonata l’originale previsione di introdurre a livello costituzionale per la prima volta la responsabilità civile dei magistrati, prevedendo la sola istituzione dell’Alta Corte disciplinare.

Pertanto a giudicare i colleghi saranno quindici giudici, tre dei quali nominati dal presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio, e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti, nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità.

È evidente che l’intera materia ci interpella e ci richiama ad approfondirne i contorni, rischi e genesi per poter consapevolmente esprimere anche la nostra posizione con il quesito referendario e contributive al dialogo nel nostro Paese.

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