Primi passi verso la luce

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Tutti i giovedì mattina da Grottaferrata scende a Roma per recarsi al Nuovo Complesso di Rebibbia, dove i suoi amici detenuti lo aspettano. Vi rimarrà circa sette ore, riuscendo a soddisfare solo una parte delle richieste di un colloquio con lui. Il resto la volta successiva. Certo è che, dopo essersi fatto carico dei problemi e delle speranze di gente che spesso ha toccato il fondo, torna a casa più ricco di quanto non ne sia partito. Da alcuni anni ormai Alfonso impiega così il suo giorno di libertà dal lavoro di assistenza ad ammalati. Come è iniziata questa esperienza? Per accontentare un amico, ho scritto a tre detenuti di sua conoscenza dicendomi disponibile a corrispondere con loro. Solo uno, Giorgio, ha aderito. Ed è stato proprio per poter incontrare lui che, in seguito, ho frequentato un corso Vic (Volontari in carcere) della Caritas. Giorgio poi mi ha fatto conoscere i suoi compagni, e questi altri ancora… Ecco, è andata così. Alfonso infonde fiducia con la sua semplicità, la sua capacità di farsi fratello di tutti; il rapporto con lui scatta immediato perché tra uguali. Quando arrivi tu, arriva il sole qua dentro si è sentito dire in più di un’occasione. A volte si confidano: Alfonso, io sono un disgraziato, uno che ne ha combinate di tutti i colori, neppure i miei familiari vogliono saperne più di me… Dici che c’è una possibilità di iniziare una vita nuova? . E lui: Sì, c’è: prova a fare qualcosa di positivo per gli altri, a voler bene nelle piccole cose. Soltanto così la vita cambia. Anche se non arriva mai a mani vuote, è soprattutto una guida nel senso evangelico. È vero, sei in carcere – ricorda a ognuno -, ma se tu ti sforzi di voler bene a chi ti sta accanto, diventi una persona libera, nuova…. Un invito a cui l’altro non sa negarsi, convinto dalla coerenza di colui dal quale gli arriva. Non contento, Alfonso chiede di mettergli per iscritto le proprie esperienze, gli effetti che ne risultano.Un espediente da bambini? In certo senso sì: per molti, infatti, è come muovere i primi incerti passi lungo una via tutta nuova: Il fatto è che funziona. All’inizio magari c’è chi rimane sorpreso: Che te ne fai? Non basta se cerco di aiutare gli altri?…. Questa è come una terapia – rispondo io -. Scrivi: intanto fa bene a te… poi magari un giorno ne ricaveremo un libro: così si verrà a sapere che in carcere non esiste solo il negativo, che non siete persone irrecuperabili. Loro ci provano, e accorgendosi delle loro potenzialità, trovano un incentivo a proseguire. Questo metodo, oltre a incuriosire qualcuno degli ottanta membri di varie associazioni e movimenti che come lui fanno volontariato a Rebibbia, raccoglie gli apprezzamenti di diversi psicologi, direttori di reparto e operatori del Sert (Servizio per la riabilitazione dei tossicodipendenti e degli alcolisti). Sarà per questo che, in via eccezionale, Alfonso ha ottenuto il permesso di incontrare i detenuti di tutti i reparti. A dire la verità, siccome non riesco a seguirne più di una cinquantina, dopo aver individuato in ogni reparto i più disponibili, cerco di coltivare quelli per poi arrivare, tramite loro, anche agli altri. Lo fa con l’ausilio anche della Parola di vita mensile e di Città nuova.Molti dei suoi amici dicono di trovare nel nostro periodico un alimento, un aiuto a vedere le cose da un’altra visuale. Le esperienze finora raccolte già riempiono una pila di fogli e foglietti d’ogni tipo, scritti a volte con calligrafie incerte e non proprio in un italiano impeccabile.Ma anche nella loro ripetitività (molto spesso il gesto di altruismo si concretizza nel privarsi di una sigaretta, di un indumento o di un francobollo… tutti beni per chi vive dietro i cancelli) sono testimonianza commovente che anche in carcere è possibile aiutarsi a vivere meglio, con dignità. Spigolando qua e là, leggo di Miro, 32 anni, sposato, con due figli piccoli: Questa mattina un mio amico del piano di sopra mi ha chiesto se alle 13 scendevo all’aria: gli sarebbe stato di conforto scambiare due parole perché era un po’ giù di morale. Io, stanchissimo per il tanto lavoro svolto nella mattinata, gli ho detto ugualmente di sì e abbiamo passato un’ oretta insieme. Gli ha fatto piacere perché è molto riservato: solo con me si sfoga dei suoi problemi. Lavoro come portavitto – è sempre Miro a scrivere -. Oggi a pranzo ho distribuito la pasta per le celle. Finalmente potevo pranzare perché avevo finito il giro. Invece dal piano superiore era avanzata molta pasta. Per fare contenti i miei compagni, ho fatto un altro giro di distribuzione. Tutti si sono saziati, io ho mangiato la mia pasta fredda, però ero contento. E Andrea, 30 anni, anche lui sposato e padre di due bambini: Sabato ho cercato di tirare su Mirko perché ha ricevuto un avviso di garanzia ed era molto triste. Lo stesso Andrea annota in giorni diversi tutta una serie di piccoli gesti d’amicizia: Ho regalato le sigarette e le caramelle che tu mi hai dato ai detenuti più disagiati… Oggi ho dato due buste da lettera. Ho anche prestato un libro di poesie a Puccio… Ho regalato lo stereo a Giuliano… Ad Antonio ho regalato un K-way perché sentiva freddo e anche un pantalone del pigiama… Ho regalato la maglietta del pigiama al mio compagno di cella Luigi perché era senza niente… Questa mattina ho prestato un paio di scarpe a un amico che doveva andare in causa e aveva le sue tutte rotte… Ho dato una cipolla e un po’ di zucchero a una cella vicina alla nostra… Ho mandato qualcosa da mangiare a Marco in isolamento… È una settimana che sto vicino a Giuliano perché ha una situazione familiare difficile ed è depresso. Il già citato Giuliano, 47 anni e due figlie sposate, scrive: Marco, un mio compagno di cella, aveva i bambini ammalati, era molto preoccupato perché la moglie non era venuta al colloquio. Ho cercato di consolarlo e l’ho invitato a pregare la Madonna. Il giorno dopo gli è arrivato un telegramma dalla moglie: diceva che i bambini non avevano più la febbre. Questa mattina mi è arrivato un poster raffigurante la Madonna con il Bambino: siamo rimasti tutti meravigliati e contenti. Non sappiamo chi ce lo ha mandato. È la volta di Marco: Ho parlato con un mio compagno di cella a lungo, cercando di fargli capire che anche se qui è molto difficile, dobbiamo essere come una famiglia. Mi sembra che ci siamo capiti. Mentre Taib, iracheno curdo di 35 anni: Per mettere in pratica il vivere per gli altri, ho dato di cuore a una persona conosciuta da poco un accappatoio e un paio di ciabatte, poi l’ho invitato nella mia cella a prendere un tè. Gli ho detto anche: se posso esserti utile in qualcosa puoi contare su di me. Claudio registra in diverse date: Un ragazzo della cella di fronte alla mia era disperatissimo per aver perso l’anello che gli aveva regalato la moglie. Ho provato a smontare il sifone del lavandino e così l’abbiamo trovato. È difficile dire come era felice… Di sera ho scritto una lettera per un detenuto analfabeta… Ho regalato un pacchetto di sigarette da dieci con piacere a costo di restare senza io. E Ovidiu, 30 anni, romeno: Ho lavorato per due mesi a costruire una barca con degli stuzzicadenti. Volevo venderla e ricavare dei soldi. Un mio amico però non aveva niente per fare un regalo alla sua moglie e allora ho pensato di regalargli la mia barca. Era contento. Enzo si dilunga in lettere, da cui stralcio: Caro Alfonso, come vedi, nel nostro piccolo cerchiamo di aiutare quei compagni che hanno molte difficoltà… Quello che facciamo noi è poco, però ci dà la forza di andare avanti nella strada dove c’è la luce… Quando ci addormentiamo siamo liberi e abbiamo la coscienza a posto … Con i compagni cerco sempre un dialogo: a volte serve una parola buona, a volte basta essere disponibili, altre volte diciamo insieme una preghiera affinché il Signore ci aiuti a superare questi momenti brutti. C’è perfino chi, come Adelmo, 32 anni, si esprime in versi: Il silenzio della notte/ è come un accogliente letto caldo/ (…). È la voce della nostra coscienza./ (…) Possono i carcerati ravvedersi, /i ciechi vedere tramonti, /i barboni sognare un camino acceso./ Possono i potenti diventare umili e saggi, /i malati tornare a sorridere./ Il silenzio della notte/ è il letto caldo dove tutti/fanno i conti con la Verità. Spesso, il rapporto continua anche quando qualcuno ha finito di scontare la sua pena o viene trasferito: è il caso di Adelmo, quello della poesia, che scrive dal carcere di Campobasso: È dal ’96 che sono in carcere. Disagi, lutti in famiglia e di nuovo carcere… Meno male che ho imparato ad amare e credere perché oggi, se così non fosse stato, non so che fine avrei fatto. Detto questo, voglio confidarti che continuo a pregare e cerco di portare questa vita di amore a chi ne ha più bisogno…. Anche fuori di qui non sarà facile… – è ancora Adelmo – ma bisogna fare i conti con il proprio passato, accettarlo, tirare fuori l’umiltà e dire: ho bisogno di aiuto… Non nego che ci sono stati momenti in cui ho provato sulla mia pelle qualcosa che ha vissuto Gesù: l’abbandono, la persecuzione, l’indifferenza di tante persone… ma poi dico a me stesso: io sono colpevole e lui era innocente. Ha sacrificato la sua vita per redimerci, per farci capire fino a quanto dobbiamo amare. Come non si può amarlo e adorarlo?. Brani di vita nuova che mi fanno capire meglio l’affermazione conclusiva di Alfonso: Ho 61 anni, ma me ne sento 20. E pensare che quando ne avevo 20 di anni, me ne sentivo 60!.

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