Primavera romana
Radu Lupu esegue Berg, Beethoven, Schubert. Accademia Nazionale Santa Cecilia. Èforse, con Kissin, oggi il massimo del pianismo. Schivo, antidivo, Lupu ha carisma: entra, si accosta, si crea un’atmosfera impalpabile – magica diranno gli ascoltatori – dove la Musica è un fatto sacro, ma semplice, che tutti avvolge. Ed è – miracolo – silenzio assoluto. Lupu accarezza la tastiera, il tocco genera sonorità morbide, eccelle nei pianissimo, riempie di musica le pause, scorre dai tasti acuti ai gravi: c’è luce. Berg (Sonata op.1) è tutto sospensioni, Beethoven (32 Variazioni in do min., Sonata n.28 in la magg. op.101) limpido nelle Variazioni, denso come un’orchestra diretta da un Walter nella Sonata; e l’amato Schubert (Sonata in sol magg. Op. 78) canta la primavera della vita con quel lirismo affettuoso, casto, quel ritmo sorgivo che Lupu – che deve avere una particolare affinità spirituale con lui – trasmette con tranquilla immediatezza. Nessuna posa, nessuna retorica interpretativa, eppure i pezzi sono difficili: Lupu sembra non accorgersene, suona con gioia evidente, con naturalezza. È la musica che lo porta e che, alla fine, ci porta. Tutta la fatica dell’interpretare e dell’ascoltare non si vede. Anzi, il pianista concede bis del prediletto Schubert. Così sono i veri – rari – grandi dell’interpretazione. Furori giovanili G.Verdi, Attila. Teatro dell’Opera. Fanno bene ogni tanto i ritmi calienti di Verdi, 33 anni, che, con un libretto stravagante in cui il cattivo è il romano Ezio e il buono l’unno Attila – ma in realtà è la virago Odabella a tener le fila – ne approfitta per sperimentazioni strumentali e drammatiche (vedi il futuro Macbeth), arie e cabalette sbalzate sul fuoco, e soprattutto cori e concertati: dove, come spesso, dà il meglio. Temperatura comunque alta, arcate melodiche popolareggianti raddoppiate dai violoncelli, energia, ma raffinatezze squisite dei legni: insomma un lavoro tutt’altro che brutto perché Verdi ha quella forza d’animo che in ogni epoca in crisi ci vuole. E lui sa rischiare per dir qualcosa di nuovo. Un impegnato Antonio Pirolli ha perciò coinvolto l’orchestra romana in buona forma, specie i legni, e i cantanti, fra cui il nobile, equilibrato Roberto Scandiuzzi (Attila), i passionali Frontali (Ezio) e Theodossiou (Odabella), ed anche Walter Fraccaro, tenore che ha lo squillo ma poca disciplina… Una messinscena essenziale, videata ed i costumi barbarici hanno completato una rappresentazione che, a parte una coreografia televisiva di dubbio effetto, è riuscita. Il giovane Verdi funziona ancora. J.S.Bach,Concerti Brandeburghesi. Concerto italiano diretto da Rinaldo Alessandrini. Roma, Accademia Filarmonica Romana. Ma che ci fanno così tanti giovani e giovanissimi con i sei concerti barocchi del vecchio Johann Sebastian, che poi commentano entusiasti? Ma il pubblico giovanile non era disaffezionato alla classica, secondo i sondaggi? Sarà. Certo è che la musica ha il potere – diciamo il carisma – di dar pace all’anima, di riempirla di qualcosa di grande, e questo seduce giovani e no. Bach poi ha una dimensione innata etico-religiosa che rende miracoloso anche ciò che è didattico, presente nei Brandeburghesi in alcuni momenti. Ma non si nota, perché l’ampiezza di concezione, l’ordine della fantasia, il saper rielaborare stili diversi (Vivaldi, i francesi) in modo personale, con assoluta semplicità, fa apparire immediato ciò che è frutto di una mente superiore e di un lavoro serrato. Il complesso di Alessandrini, con violini viole flauti dolci e traversi, oboi, violoncelli, trombe e così via, spazia attraverso generi e sensibilità differenti, tecniche e strumentazioni non simili come un fiume in lento e pacificante scorrere. Con momenti altissimi. Penso al Concerto n. 5 e alla cadenza del clavicembalo, impressionante per ricchezza di svolgimento e virtuosismo, in un’astrazione sonora che l’avvicina a tanta arte informale del Novecento: spirito puro, mente luminosa. Siamo davvero in un’altra dimensione. I solisti del Concerto sono poi bravissimi, ognuno un unicum, che ama e sa far amare la musica che interpreta. Forse sta in questo la ragione del successo sui giovani, oltre che ovviamente merito di Johann Sebastian.