Primavera a Locri

Visita all’antica colonia magno-greca e al suo parco naturalistico. All’insegna del mito
Pinakes raffigurante Ade e Persefone di AlMare

Andando a sud della moderna Locri, dopo tre chilometri della statale 106 “Jonica”, Guido ferma l’auto proprio accanto all’ingresso del parco archeologico, in una zona pianeggiante compresa tra il mare, due fiumare e le colline. La distanza dal centro abitato ha preservato quasi integralmente l’antica colonia greca, anche se, nel corso dei secoli, le sue rovine non hanno mai mancato di fornire materiale per le nuove costruzioni.

Prima tappa al Museo. Sorge ai confini dell’area sacra di Marasà, nelle immediate vicinanze del tratto d’angolo in cui le mura, dopo un percorso parallelo alla costa, prendono a svilupparsi verso le basse colline di Castellace, Abbadessa e Manella. È una palazzina su due piani di piccole dimensioni, ma i reperti esposti, provenienti per lo più dal sito urbano, offrono una ricca scelta: da quelli risalenti all’età del Ferro, prima della colonizzazione greca, a quelli che si riferiscono alla polis magno-greca.

Mi attirano in particolare: un modello fittile di grotta dal santuario delle Ninfe; le terrecotte architettoniche che ornavano edifici templari con ancora tracce di policromia; corredi funerari rinvenuti nelle numerose necropoli, tra i quali parti di strumenti musicali (cetre, flauti), oggetti da toeletta e, produzione tipica locrese, specchi in bronzo dai manici figurati; alcune toccanti bamboline snodabili recuperate in qualche sepoltura infantile… Solo una minima parte di ciò che, a partire dei primi del Novecento, è stato ritrovato dagli archeologi, andando poi ad arricchire le collezioni dei Musei di Reggio, Napoli e di altri esteri.

Usciamo per visitare l’area su cui sorgeva la città. Gli scavi sono stati fatti a macchia di leopardo, un po’ qua e un po’ là in mezzo alla ferace campagna, e comunque i ruderi visibili emergono poco più delle fondamenta con i loro blocchi ben squadrati di locale calcare e i ciottoli provenienti dalla vicina costa. Occorre molta immaginazione per raffigurarsi, al posto dei morbidi prati di acetosella gialla, dei frutteti stracarichi di agrumi, degli oliveti secolari, dei superbi filari di cipressi, delle colossali spalliere di fichi d’india fra cui ci stiamo inoltrando, l’ultima opulenta colonia greca fondata sulla costa jonica calabrese.

Sì, Locri Epizefiri ebbe origine nel VII secolo a. C. da greci provenienti dalla Locride orientale, di fronte all’isola di Eubea. Stabilitisi inizialmente, in ossequio alle indicazioni dell’oracolo di Delfi, presso capo Zefirio, attuale capo Bruzzano (di qui il nome Epizephyrioi), in seguito, con l’aiuto dei siracusani, si spostarono circa venti chilometri più a nord. La nuova fondazione, fatta a spese delle primitive popolazioni di siculi, mantenne lo stesso nome, forse per continuare a sentirsi sotto la protezione del dio Apollo.

Nel corso di un secolo Locri estese la propria supremazia dalla costa jonica al versante tirrenico dell’attuale Calabria, fondando tra il 650 e il 600 a.C. due nuove colonie: Medma e Hipponion, oggi Rosarno e Vibo Valentia. Non seguirò le successive tumultuose vicende che la videro contrastare prima la volontà espansionistica di Crotone, poi l’egemonia di Reggio e di Atene nell’alternarsi delle alleanze, infine soggiacere alla conquista romana. Ricordo solo che la colonia fu famosa nell’antichità per essere stata la prima città in Occidente a dotarsi, nel 660 a.C., di un codice di leggi scritte (ne fu autore il mitico Zaleuco) e per la particolare usanza che conferiva validità alla discendenza per linea materna.

Il IV secolo a. C. fu il suo periodo di massimo splendore artistico, economico, culturale e anche agonistico, con figure come la poetessa Nosside, emula italica di Saffo, il musico poeta Senocrito, gli atleti olimpici Agesidamo, Eutimo ed Euticle, noti in tutta la Grecia, e i filosofi Echecrate, Timeo ed Arione, fondatori di una fiorente scuola pitagorica.

Stiamo ammirando ciò che resta, in contrada Marasà, del tempio ionico, il primo di questo stile eretto in Magna Grecia verso la metà del V sec. a.C. sui resti di un precedente edificio arcaico. Doveva essere imponente con le sue colonne di dodici metri d’altezza (così si legge nelle guide): ne rimane solo un mozzicone di una. Nel museo è conservata una sbarretta metallica che serviva a unire i massicci blocchi di calcare con cui era costruito, a rinforzo dell’intera struttura: precauzione non eccessiva per una terra, la Calabria, che ha sempre sofferto per i devastanti terremoti. Da questo tempio provengono le due splendide statue equestri in marmo pario raffiguranti i Dioscuri, ora orgoglio del Museo reggino.

Guido ed io proseguiamo la visita consapevoli che nel tempo a disposizione non arriveremo a esplorare l’intero sito, troppo vasta era Locri Epizefiri, estesa tra il mare e la collina su un’area di ben 240 ettari (l’antica Pompei ne misurava appena 66!). Non toccheremo perciò nella parte bassa, in località Centocamere, il quartiere abitativo-artigianale e l’area sacra del santuario di Afrodite con il tempietto cinto da un porticato e da ambienti adibiti alla prostituzione sacra. Neppure saliremo fino a mezza costa, che immaginiamo quasi impraticabile con le sue coltivazioni alternate alla rustica macchia mediterranea: lì continua il circuito delle mura e sono stati rinvenuti altri santuari, esempio della molteplicità di culti che in una città marittima come Locri, aperta agli scambi con tutto il Mediterraneo, non potevano mancare.

Ma non vorremmo rinunciare, in questa escursione rigenerante anche solo dal punto di vista naturalistico, alla visita ad uno dei complessi più interessanti di Locri antica: si tratta di una masseria ottocentesca già appartenuta ai baroni Macrì che ha inglobato strutture monumentali di un edificio termale risalente al II sec. d.C. Dopo il restauro, è diventata la nuova sezione del Museo dedicata alle testimonianze locresi di età romana e tardoantica. Ma una volta giunti al termine del sentiero che conduce al Casino Macrì, ci aspetta la delusione di trovarlo chiuso. Verremo poi a sapere che apre solo in certi orari su prenotazione, a motivo della scarsità del personale. Peccato! Come non arriveremo a visitare, fuori da quest’area, il teatro addossato all’altura di Casa Marafioti: risalente al IV secolo a. C. con rifacimenti in età romana, poteva contenere circa 4500 spettatori. Sarà per un’altra volta. L’antica Locri vale bene ripetute visite.

Ritorniamo dunque verso il primo museo, riflettendo sulla grande promessa dell’archeologia magno-greca rappresentata da questa città rimessa in luce appena in minima parte. È primavera, stagione che con l’estate è dedicata a Persefone, la figlia di Demetra rapita da Ade, il dio dell’oltretomba, e divenuta sua sposa; Persefone, detta anche Kore e Proserpina, che dopo i sei mesi d’autunno e inverno trascorsi nel suo regno tenebroso, è uscita per trascorrere con la madre gli altri sei mesi dell’anno: così l’ho vista raffigurata in alcune tavolette votive del Museo, i famosi pinakes fittili rappresentanti questo mito, tra le più alte testimonianze artistiche della Magna Grecia.

Il silenzio è rotto solo dal cinguettio degli uccelli e dal sibilo del vento che fa ondeggiare gli alti vertici dei cipressi. Ancora non è tempo di cicale, alle quali è legata più di una leggenda di Locri. Strabone riporta che durante i Giochi pitici (giochi panellenici precursori delle Olimpiadi, che si disputavano ogni quattro anni presso il santuario di Apollo a Delfi) la corda di un celebre suonatore di cetra locrese, Eunomo, si ruppe mentre si esibiva; al che una cicala, posandosi sullo strumento, supplì col suo canto alla rottura. Lo stesso geografo e storico riferisce l’esistenza a Locri di una statua del citaredo con una cicala posata sullo strumento. Un’altra leggenda, ricordata fra gli altri da Plinio, tramanda che le cicale della sponda locrese erano canore, a differenza di quelle della sponda reggina: evidente riferimento alle contese che opposero le due potenti colonie. Mi sa che a Locri torneremo la prossima estate, per completare la visita ascoltando il canto delle sue cicale.

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