Primarie in preda ad una crisi di nervi
Le elezioni primarie sono (o dovrebbero essere) consultazioni attraverso le quali gli iscritti scelgono il candidato del proprio partito per una successiva elezione ad una carica pubblica.
L’obbiettivo di questo sistema è ambizioso, perché mira a promuovere la massima partecipazione degli elettori per la scelta diretta e personale dei candidati, in contrapposizione al sistema che lascia invece questa scelta nelle mani delle oligarchie dei partiti.
Nel nostro Paese, in cui, dal 2005, gli elettori vengono impediti dall’esprimere una preferenza alle elezioni politiche per la scelta dei propri rappresentanti al Parlamento, era stata salutata con favore – come una boccata di ossigeno democratico e di riconoscimento di sovranità popolare – la possibilità di essere “consultati” previamente, almeno in alcune circostanze (elezione delle cariche amministrative) per esprimere un gradimento sulle candidature. Aspettativa fin qui, almeno parzialmente, delusa.
Un paragone improponibile. Sono sovente citate anche da noi le elezioni primarie che si svolgono negli USA come modello a cui guardare. Ma le differenze sono così tante ed importanti che forse sarebbe meglio evitare questo confronto davvero poco opportuno.
La prima differenza è di carattere storico-temporale. Negli Stati Uniti la prima elezione primaria fu tenuta dal Partito Democratico nel 1847 in Pennsylvania, e già alla fine del XIX secolo divennero una istituzione pressoché generalizzata a livello nazionale.
Nel nostro Paese il primo tentativo sperimentale risale appena ad undici anni orsono: le prime elezioni primarie furono promosse in seno all’Unione (coalizione dei partiti del centro-sinistra) in occasione delle regionali del 2005 in Puglia e Calabria, e successivamente, nell’ottobre dello stesso anno, per la scelta del candidato alla Presidenza del Consiglio per le elezioni politiche del 2006.
In secondo luogo le primarie americane sono regolate da leggi statali e non sono quindi lasciate alla discrezione dei singoli partiti: questo vuol dire, per esempio, che i loro risultati sono vincolanti per legge. Nel nostro Paese le elezioni primarie non sono previste o regolamentate per legge, e di conseguenza da noi questo tipo di elezioni non ha alcun valore legale.
Ancora, in America ogni Stato ha le sue leggi per le primarie. Questo comporta l’esistenza di molti modelli diversi, pur con alcune regole comuni. In oltre un secolo e mezzo di attuazione di questo strumento, esso ha avuto negli USA un processo evolutivo. Le prime elezioni primarie erano del tipo "chiuso", ossia alle primarie di un partito potevano votare solo gli iscritti a quel partito.
A partire dagli anni ‘70 del XX secolo si sono diffuse le primarie di tipo "aperto", che consentivano il voto a tutti i cittadini, favorendo maggiormente la partecipazione alle elezioni. Essendo questo tipo di elezioni esposto al rischio di "inquinamento" da parte dei sostenitori degli altri partiti, si è nel tempo affermato negli USA un tipo intermedio di primarie, che consente il voto anche ai cittadini non iscritti al partito, ma potenzialmente sostenitori dei suoi candidati, che tuttavia, per poter votare alle elezioni, devono iscriversi (in qualità di aderente o indipendente) in un apposito registro presso uno dei partiti in lista.
Nel nostro Paese, i diversi tentativi di sperimentazione di elezioni primarie – pur continuando a dichiarare di guardare al modello consolidato dell’esperienza statunitense – dimostrano nei fatti di non tenere in debito conto l’evoluzione di quel modello. Perché ogni partito (i pochi, invero, che vi fanno ricorso) le promuove come meglio ritiene: chiuse o aperte, e senza iscrizione ad alcun registro. E soprattutto con le regole diverse e particolari che ciascuno di essi sceglie di stabilire. Insomma, mentre negli USA le primarie sono una cosa seria, da noi sono ancora poco più di un sondaggio di opinioni, senza alcun valore legale e vincolante, utile solo ai singoli partiti che le promuovono per dare una patina di apertura democratica ai propri apparati, che permangono ancora privi di norme legislative che ne definiscano status e regole di democrazia interna.
Allora? Fintantoché non vi sarà anche da noi una legge che preveda l’introduzione di consultazioni di tipo “primario” obbligatorie all’interno di tutti i partiti, per la scelta dei candidati per qualunque livello di elezioni, il Paese non si appassionerà più di tanto agli esiti di queste consultazioni che servono unicamente alle singole formazioni politiche per le loro scelte interne.
In quest’ottica, infatti, ai cittadini neutrali e non coinvolti, inermi osservatori (esclusi i diretti interessati e rispettivi sponsor), cosa volete che importi dei cinesi in fila ai seggi a Milano, o degli euro distribuiti ad alcuni votanti a Napoli, o del sondaggio pro/contro Bertolaso a Roma?
Per essi (ed anche per me) i tremila clic sul web degli iscritti al Movimento 5 Stelle valgono tanto quanto i 50mila (scesi poi a 46mila e ulteriormente a 43milaseicento) votanti alle primarie del PD a Roma.
Semplicemente perché i dati non sono confrontabili, avendo scelto legittimamente ciascuna delle due formazioni politiche un differente strumento di partecipazione, del tutto conforme ai rispettivi ordinamenti, nessuno dei quali avente valore legale ma soltanto valore consultivo interno.